Ad oggi è molto diffuso l’utilizzo dei servizi di posizionamento a pagamento (Ads), per la sponsorizzazione di attività aziendali , mediante la creazione di annunci e la scelta di parole chiave pertinenti alle esigenze e alle ricerche dell’utente. Tale attività non presenta particolari criticità quando le parole utilizzate sono di uso comune oppure quando il marchio utilizzato è di proprietà del soggetto che crea l’inserzione. Diverso, invece, il caso in cui un’impresa utilizzi termini che corrispondono a marchi o ad altri segni distintivi di un’altra impresa o comunque quando l’inserzione sia creata da un soggetto terzo.
Al fine di inquadrare gli obblighi e le facoltà delle parti, è necessario tener presente il quadro normativo di riferimento contenuto nel Codice della Proprietà Industriale, in particolare agli artt. 20 e 21. L’art. 20 del Codice della Proprietà Industriale prevede che: “I diritti del titolare del marchio d’impresa registrato consistono nella facoltà di fare uso esclusivo del marchio” nonché nel diritto “di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nell’attività economica:
a) un segno identico al marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato;
b) un segno identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni;
c) un segno identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio registrato goda nello stato di rinomanza e se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi.”
Tale diritto esclusivo, trova i limiti nell’art. 21 del Codice Proprietà Industriale, che prevede che il titolare, nello svolgimento della propria attività economica non possa vietare a terzi, l’uso del proprio nome e cognome, l’uso di indicazioni relative alla specie alla qualità, alla quantità, alla destinazione, al valore, alla provenienza geografica, all’epoca di fabbricazione del prodotto e della prestazione del servizio, ovvero ad altre caratteristiche proprie del prodotto medesimo (il c.d. uso descrittivo), nonché l’uso del marchio di impresa se necessario per indicare la destinazione di un prodotto e/o servizio (es. accessori e/o pezzi di ricambio) purché tale uso sia conforme ai principi di correttezza professionale, ossia non determini il verificarsi di illeciti concorrenziali e non crei confusione all’interno del mercato.
Alla luce della normativa riportata, l’uso di marchi altrui come parole chiave per servizi di posizionamento di Google può astrattamente costituire violazione di marchio, tuttavia è necessaria una valutazione caso per caso al fine di comprendere le ragioni e la natura dell’utilizzo di quel determinato marchio come parola chiave. Infatti tra le parti potrebbe essere intercorso un accordo commerciale oppure, dall’analisi della fattispecie in concreto, potrebbe emergere l’applicazione del regime di libera concorrenza e pubblicità comparativa, pertanto è necessario valutare se la restrizione pubblicitaria rivela un grado sufficiente di danno alla concorrenza da poter essere considerata una restrizione della concorrenza per oggetto ai sensi dell’articolo 101.
RAPPORTI TRA IMPRESE CONCORRENTI:
La giurisprudenza comunitaria nel caso “Interflora” – Marks & Spencer (C-323/09) avente ad oggetto l’utilizzo, da parte di Marks & Spencer, della keyword “Interflora” per posizionare un annuncio di consegna di fiori a domicilio, senza riportare il marchio Interflora nel testo dell’annuncio, ha affermato che “il titolare di un marchio ha il diritto di vietare ad un concorrente di fare pubblicità a prodotti o servizi identici a quelli per i quali tale marchio è stato registrato, quando il predetto uso è idoneo a violare una delle funzioni del marchio”. La Corte evidenzia che l’assolutezza della tutela contro l’uso non consentito di segni identici ad un marchio, per prodotti o servizi identici a quelli per i quali tale marchio è stato registrato, deve essere comunque contestualizzata, in quanto la tutela offerta dalla normativa mira solo a garantire che il marchio possa adempiere le proprie funzioni.
Le restrizioni imposte ai distributori nell’utilizzo della denominazione del brand sono da ritenersi illegittime e in violazione della normativa sulla concorrenza, pertanto non possono essere oggetto di accordo tra le parti, in particolare qualora ad imporle sia il brand stesso, anche indirettamente e non attraverso la sottoscrizione di accordi commerciali.
Con la decisione 17 dicembre 2018, la Commissione Europea, nel caso Guess, ha sanzionato l’azienda in quanto la stessa aveva imposto ai propri distributori indipendenti limitazioni per l’utilizzo del marchio “Guess” in particolare in Google Adwords.
La condotta di Guess si è concretizzata nel vietare ai rivenditori autorizzati, sia monomarca che multimarca, l’utilizzo o la possibilità di fare offerte su nomi e marchi commerciali di Guess come parole chiave in Google. Tale previsione non era inclusa negli accordi commerciali, ma posta in essere sistemticamnete ogni volta che un retailer chiedeva a Guess di utilizzare la denominazione in Google Adwords. Ciò in ragione del fatto che tali autorizzazioni avrebbero comportato un incremento dei costi per Guess stessa ed avrebbero diminuito la visibilità a discapito dei retailer.
La Commissione, richiamando la giurisprudenza della Corte Europea (cfr. Coty Case) ha affermato che la disciplina dei marchi autorizza il titolare di un marchio a vietare all’inserzionista pubblicitario di pubblicizzare beni o servizi identici a quelli per i quali il marchio è registrato utilizzando una parola chiave identica a tale marchio e selezionata dall’inserzionista senza il consenso del titolare, soltanto in circostanze in cui la pubblicità non consente o rende difficile ad un utente medio di Internet, accertare se i beni o servizi provengono dal titolare del marchio o da un’impresa economicamente collegata ad esso o da una terza parte.
Tale giurisprudenza non può essere invocata per giustificare una limitazione della capacità dei rivenditori autorizzati nei sistemi di distribuzione selettiva, che vendono prodotti reali, poiché in questo caso non vi è alcun rischio di confusione come all’origine dei prodotti e non ricade nello scopo di tutelare l’immagine del marchio.
Anche in Italia la giurisprudenza è intervenuta, il Tribunale di Milano, Sezione Specializzata in materia di Impresa, con sentenza 3280 del 2009, ha ritenuto illegittimo l’utilizzo, come parola chiave in una campagna Ads del marchio di nota società di noleggio, da parte di società concorrente; scelta che, secondo il Tribunale era evidentemente tesa a sfruttare la notorietà del marchio a proprio vantaggio configurando, nel caso specifico, un’attività confusoria, sviamento della clientela e violazione del marchio per l’individuazione di servizi offerti dall’inserzionista, sicuramente affini a quelli della società il cui marchio era stato inserito come parola chiave.
L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato è stata chiamata a decidere, nel mese di febbraio del 2015, su un caso di utilizzo di marchio altrui tra le parole chiave relative ad una campagna ads. In ordine all’utilizzo del marchio di nota società veneta di arredamento cucine da parte di società concorrente, senza che vi fosse alcun rapporto di natura commerciale, l’Autorità ha ritenuto che la condotta posta in essere dalla società inserzionista sia ingannevole e determini confusione tra i consumatori, così configurando un’ipotesi di pratica commerciale scorretta, ai sensi degli articoli 20, comma 2, 21, comma 1, lettere a) ed f), e comma 2, lettera a), del Codice del Consumo, ne vieta la diffusione o continuazione e irroga alla Società una sanzione amministrativa pecuniaria di 11.000 € (undicimila euro).
RAPPORTI CON L’INSERZIONISTA TERZO:
Per quanto riguarda l’aspetto della responsabilità dei motori di ricerca, la Corte di Giustizia Europea in data 23 marzo 2010, nel caso “Google France” ha delineato le responsabilità dei motori di ricerca nel caso in cui si verifichino illeciti concorrenziali realizzati dagli inserzionisti.
La Corte ha affermato che Google, al contrario dell’inserzionista, può beneficiare dell’esenzione di responsabilità prevista dall’art. 14, n. 1 della Direttiva 2000/31CE per l’attività di catching, a condizione che si limiti ad attività di ordine “meramente tecnico, automatico e passivo” e che non abbia nessuna conoscenza o controllo sulle informazioni.
Tale condizione non viene meno in considerazione del fatto che il servizio sia offerto a pagamento e che sia proprio in forza di tale pagamento che si visualizzano le inserzioni, ma l’illecito si configura allorché l’annuncio che accompagna il link sponsorizzato induca l’utente di Internet a ritenere la sussistenza di un “collegamento economico” tra l’autore dell’annuncio o il titolare del sito, ovvero quando il medesimo sia talmente vago da non consentire all’utente “normalmente informato e ragionevolmente attento” di sapere, sulla base di tale annuncio e del link, se tale collegamento sussista o meno.
In sostanza la responsabilità di Google residua a quelle ipotesi in cui, su segnalazione, non si intervenga prontamente alla rimozione della keyword segnalata come oggetto di atto di concorrenza sleale e contraffazione.