Approfondimenti Contrattualistica d'impresa

IL CONTRATTO TRA BRAND ED INFLUENCER

Nel mondo digital sono sempre di più le imprese titolari di marchi più o meno conosciuti, che decidono di avvalersi di influencer per promuovere la vendita dei prodotti. Trattandosi di modalità di collaborazione che si stanno diffondendo sempre di più, la disciplina contrattuale è fondamentale a proteggere gli interessi, definire i principali aspetti, diritti ed obblighi di tutte le parti coinvolte.

Il contratto, atipico e di contenuto variabile, anche in relazione al tipo di campagna di marketing nel quale l’influencer è coinvolto, deve regolare dettagliatamente la prestazione prevendendo come contenuto minimo:

-individuazione delle parti: influencer o Agenzia che lo rappresenta;

-descrizione dettagliata dei contenuti da produrre: post, stories, video;

-frequenza della pubblicazione e termini di visibilità dei post: timing della pubblicazione dei contenuti (giorno e ora) e data in cui le pubblicazioni possono o devono essere eliminate;

-terminologia ed hashtag da utilizzare nella pubblicazione dei relativi contenuti;

-individuazione dei canali sui quali promuovere i prodotti: blog, social, siti e-commerce dei brand etc.;

– previsione di partecipazione degli influencer ad eventi organizzati dal brand.

 

Elemento centrale del contratto è la cessione da parte dell’influencer del proprio nome e dei diritti di sfruttamento della propria immagine per fine promozionale del prodotto che devono essere descritti dettagliatamente e individuati temporalmente. Mentre il contenuto creato dall’influencer rimane di sua proprietà, per questioni legate ai diritti d’autore. Tuttavia, può sempre includere nel contratto una clausola che autorizza a riutilizzare il contenuto in questione.

Tale autorizzazione prevista nel Contratto è indispensabile per procedere da parte del brand alla pubblicazione di post o immagini raffiguranti l’influencer, ai sensi della normativa sul diritto d’autore (art. 96 e ss. L. n. 633/1941), del il codice civile (art. 10) e delle disposizioni a tutela della privacy (GDPR) richiedono che il ritratto di una persona possa essere riprodotto, esposto o messo in commercio soltanto con il consenso di quest’ultima. Non ha nessuna rilevanza che l’immagine sia stata precedentemente pubblicata direttamente dall’influencer.

Nell’attività di pubblicazione da parte del Brand, deve essere tenuto presente anche la tutela di diritti di proprietà industriale di terzi. L’inserimento non autorizzato di marchi di terzi può determinare confusione per il consumatore destinatario dell’immagine, rappresentare una violazione dei diritti di esclusiva e potrebbe inoltre integrare un atto di concorrenza sleale con le conseguenti sanzioni.

Trattandosi evidentemente di contratti legati alla sfera dell’immagine, sarà opportuno per entrambe le parti prevedere clausole a tutela dell’immagine e della reputazione.

Lato influencer, potrebbe essere opportuno inserire una tutela che permetta di risolvere il rapporto contrattuale nell’ipotesi in cui il brand ponga in essere una condotta censurabile.

Lato Brand, potrà essere prevista analoga clausola in caso di condotta dell’influencer che possa ledere la reputazione del Brand. A sostegno di una tale previsione potrà essere allegato anche al contratto, se in possesso del Brand, il codice di condotta, così da assumere valore giuridico anche per l’attività dell’influencer.

Un ulteriore previsione che ha una rilevanza fondamentale nel contratto riguarda l’obbligo di riservatezza dell’influencer sul know-how aziendale del quale possa venire a conoscenza nel corso dell’incarico.

Infine, spesso per particolari campagne di marketing è possibile negoziare anche una clausola di esclusiva, che tuttavia  dev’essere limitata a un lasso di tempo ben preciso, considerando che una clausola troppo lunga rischierebbe di essere annullata in sede contenziosa.

 

Un ultimo aspetto da analizzare riguarda il divieto di pubblicità ingannevole.

Il Brand e l’influencer hanno l’obbligo di rendere riconoscibili le finalità promozionali dei contenuti pubblicati sul web, in modo da non indurre il consumatore in inganno, lasciando intendere che tale prodotto sia stato scelto spontaneamente dall’influencer.

L’AGCM ha precisato l’obbligo di rendere riconoscibili le finalità promozionali dei contenuti condivisi attraverso social media, con l’inserimento di hashtag dedicati: #pubblicità, #advertising ecc.,

Il decreto legislativo n. 145/2007 prevede espressamente che: “Con il provvedimento che vieta la diffusione della pubblicità, l’Autorità dispone inoltre l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000,00 euro a 500.000,00 euro, tenuto conto della gravità e della durata della violazione. Nel caso di pubblicità che possono comportare un pericolo per la salute o la sicurezza, nonché suscettibili di raggiungere, direttamente o indirettamente, minori o adolescenti, la sanzione non può essere inferiore a 50.000,00 euro”.

Anche l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria si è occupato delle nuove forme della comunicazione commerciale attraverso la cosiddetta Digital Chart (integrata all’interno del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale). Alcune pronunce dello IAP hanno sanzionato imprese o influencer per messaggi di pubblicità occulta tramite influencer marketing, inibendo la riproposizione della condotta.

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Reati tributari e responsabilita’ degli enti ex d.lgs. 231/2001: una nuova inclusione

Da dicembre 2019 gli illeciti tributari sono entrati ufficialmente a far parte dei reati presupposto della responsabilità degli enti ex D.Lgs. 231/2001.

Con il primo intervento, ad opera del D.L. 26 ottobre 2019, convertito con modifiche in L. 19 dicembre 2019, n. 157, è stato introdotto nel decreto 231 il nuovo art. 25-quinquiesdecies che estende il catalogo dei reati presupposto della responsabilità degli enti alle seguenti fattispecie:

– dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2, co.1 e co. 2-bis, d.lgs. n. 74/2000);

– dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3, d.lgs. 74/2000);

– emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8, commi 1 e 2-bis, d.lgs. 74/2000);

– occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10, d.lgs. 74/2000);

– sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11, d.lgs. 74/2000).

Successivamente, nel mese di luglio 2020, sono state ulteriormente ampliate le fattispecie tributarie rilevanti ai fini 231 mediante il recepimento della c.d. Direttiva PIF (Direttiva UE 2017/1371) che, da un lato, ha esteso ulteriormente il novero dei reati tributari presupposto della responsabilità degli enti – introducendo i reati di dichiarazione infedele (art. 4, d.lgs. 74/2000), omessa dichiarazione (art. 5, d.lgs. 74/2000) e indebita compensazione (art. 10-quater, d.lgs. n. 74/2000) – e, dall’altro lato, ha limitato la responsabilità dell’ente per queste tipologie di reati, prevedendo che l’ente possa rispondere  solo se le condotte criminose sono commesse nell’ambito di sistemi fraudolenti transfrontalieri, al fine di evadere l’IVA e per un importo superiore a 10 milioni di euro.

Da un punto di vista pratico, questa estensione impone una ulteriore presa di coscienza e analisi delle società che potenzialmente potrebbero incorrere nella realizzazione delle ipotesi criminose di nuova introduzione. Per fare ciò, inevitabilmente, si dovrà partire da un’analisi del rischio di verificazione delle condotte criminose e delle procedure aziendali e dei protocolli interni al fine di valutare l’adeguatezza o la necessità di revisione dei medesimi ovvero l’introduzione di nuove procedure aziendali volte a prevenire e/o mitigare il rischio di realizzazione delle fattispecie criminose in parola.

Per quanto sopra, occorrerà prestare attenzione a specifiche attività che riguardano, a titolo esemplificativo, la corretta registrazione contabile di fatture o altri documenti, la tenuta della contabilità, il complesso delle attività dichiarative volte alla determinazione dei tributi con la redazione dei bilanci. Più in generale, si dovrà avere riguardo alle procedure aziendali riguardanti i rapporti con i fornitori, compresa la selezione ed identificazione della controparte, con la corretta contabilizzazione delle operazioni di acquisto e vendita e di ogni altra spesa. Di particolare importanza sarà l’attività di controllo svolta dal Collegio Sindacale e dalla società di Revisione, ove presenti, oltre che i controlli effettuati dall’Organismo di Vigilanza.

Infine, particolare attenzione dovrà essere dedicata alla predisposizione e/o aggiornamento dei Modelli Organizzativi di Gestione (MOG) e alla formazione dei responsabili incaricati di presidiare le procedure aziendali interessate.

Più nel dettaglio, a titolo meramente esemplificativo, di seguito si elencano alcune cautele che potranno essere seguite dagli enti al fine di mitigare il rischio di commissione dei reati di questa specie:

prevedere all’interno del Codice etico e del Modello organizzativo ex d.lgs. 231/01 specifici principi, obblighi e divieti relativi alla disciplina in materia tributaria idonei a prevenire la commissione dei reati tributari rilevanti in tema 231;
garantire la più rigorosa trasparenza contabile in qualsiasi momento ed a fronte di qualsiasi circostanza;
prevedere regole interne relative all’emissione e/o al ricevimento di documentazione afferente la contabilità aziendale, alla predisposizione e/o presentazione di dichiarazioni e comunicazioni relative alla materia tributaria, oltre che al pagamento di imposte;
adottare specifiche procedure per la gestione degli acquisti di beni e servizi, anche distinguendo le diverse tipologie (beni, servizi, investimenti, piccolo acquisti ricorrenti di modesto importo, ecc.), con identificazione dei ruoli coinvolti e delle responsabilità e con segregazione delle funzioni coinvolte nel processo, in particolare tra la gestione dell’ordine, la gestione dei pagamenti e la registrazione delle spese;
vincolare contrattualmente eventuali terzi a cui siano affidate le attività di predisposizione delle dichiarazioni e comunicazioni in materia di imposte sui redditi o sul valore aggiunto, prevedendo apposite dichiarazioni del terzo consulente o della società: a) di essere a conoscenza della normativa di cui al D.lgs. 231/2001 e delle sue implicazioni per la Società; b) di impegnarsi a rispettare la normativa, garantendone il rispetto anche da parte dei propri dipendenti e collaboratori; c) di non essere mai stati condannati (o avere richiesto il patteggiamento) e di non essere al momento imputati o indagati in procedimenti penali relativi ai Reati Presupposto; nel caso di esistenza di condanna o di procedimento in corso, e sempre che l’accordo sia ritenuto indispensabile e da preferirsi a un contratto con altri soggetti, dovranno essere adottate particolari cautele; d) di impegno a rispettare il Modello Organizzativo di Gestione e il Codice Etico della Società, ovvero, nel caso di enti, di avere adottato un proprio analogo Modello e un Codice Etico che regolamentano la prevenzione dei reati contemplati nel Modello e nel Codice Etico della Società;
controllare che le fatture e i documenti contabili si riferiscano a prestazioni effettivamente svolte da parte dell’emittente delle fatture/documenti ed effettivamente ricevute dall’ente;
verificare la regolare applicazione dell’imposta sul valore aggiunto e delle altre imposte sui redditi;
effettuare una costante attività formativa, a tutti i destinatari, su quanto previsto dal Codice etico e dal Modello organizzativo 231 aziendale, assicurando diffusione/formazione sulle diverse procedure/protocolli.

Tali previsioni dovranno essere inserite all’interno dei nuovi modelli di organizzazione, gestione e controllo, unico strumento che offre all’imprenditore, ai soci e alla governance aziendale un vero e proprio sistema integrato di controlli che consente di monitorare l’attività dell’impresa e, pertanto, di gestire in modo efficiente e puntuale qualsiasi forma di rischio (compreso quello fiscale e penale). 

Approfondimenti Non categorizzato

Effetti della Brexit sull’E-commerce

A seguito del referendum del 2017 sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea, in cui il 52% ha votato per lasciare l’Unione Europea, è stato dato avvio al processo che ha determinato il 31 gennaio 2020 la Brexit, ovvero la fine dell’adesione del Regno Unito all’Unione Europea.

Ciò ha dato inizio a un periodo di transizione, iniziato appunto il 31 gennaio 2020, durante il quale il Regno Unito ha continuato a far parte del mercato unico, che garantisce la libera circolazione di persone, servizi, merci e capitali all’interno degli stati membri dell’Unione Europea e dell’unione doganale che assicura negli scambi commerciali una tariffa esterna comune a tutte le merci che entrano nel territorio dell’unione.

Il periodo di transizione si è concluso il 31 dicembre 2020, data i cui i rapporti fra Regno Unito e Unione Europea hanno iniziato ad essere regolati dall’accordo sugli scambi commerciali e la cooperazione sottoscritto il 24 dicembre 2020, che troverà applicazione fino al 28 febbraio 2021, salvo proroghe.

Tale accordo definisce le condizioni della futura collaborazione del Regno Unito con l’UE, incentrate principalmente su:

– un accordo di libero scambio di merci, di servizi e di un’ampia gamma di altri settori di interesse dell’Unione (es. investimenti, concorrenza, aiuti di Stato, trasparenza fiscale, trasporti aerei e stradali, energia e sostenibilità, pesca, protezione dei dati e coordinamento in materia di sicurezza sociale).

– un partenariato per la sicurezza dei cittadini attraverso una cooperazione tra polizie e autorità giudiziarie nazionali, per combattere e perseguire penalmente il crimine e il terrorismo transfrontalieri.

– Un accordo in materia di governance che chiarisca con quali modalità l’accordo sarà gestito e controllato, istituendo un consiglio incaricato di accertarsi che l’accordo sia applicato e interpretato correttamente.

A decorrere dal 1° gennaio 2021 il Regno Unito ha quindi lasciato il mercato unico e l’unione doganale dell’UE insieme a tutte le politiche dell’Unione europea e agli accordi internazionali ed ha avuto pertanto fine la libera circolazione di persone, merci, servizi e capitali tra il Regno Unito e l’Unione europea.

CONSEGUENZE PER L’E-COMMERCE

In tale contesto di rapporti commerciali non ancora ben definiti, un’attenzione particolare viene posta al settore dell’e-commerce, alla luce del fatto che il mercato online britannico è per numero di vendite il terzo più importante a livello europeo.

Con l’uscita del Regno Unito dal Mercato unico europeo e la fine dell’unione doganale, si sono verificati gravi disagi per il commercio elettronico, in particolar modo per ciò che riguarda le attività di logistica e spedizione.

Nessun problema nel caso in cui il merchant disponga di un magazzino in UK, ma qualora venda la merce da un magazzino Italiano (o CEE), tutti gli ordini spediti nel Regno Unito potranno essere soggetti a DAZIO DOGANALE, ovvero un’imposta indiretta applicata sul valore dei prodotti importati ed esportati dal Paese.

L’ammontare dell’imposta viene quantificata dall’Autorità doganale sulla base del valore di ogni singolo prodotto acquistato.

I dazi doganali di norma devono essere pagati dal destinatario, affinché la merce possa effettivamente entrare in suo possesso. Se questo rifiuta il pagamento del dazio, il costo viene automaticamente addebitato al mittente della spedizione.

Oltre al pagamento del dazio, che è appunto una tassa che si aggiunge all’IVA, deve essere tenuto in considerazione anche il costo delle operazioni doganali, ovvero un corrispettivo richiesto dal vettore che corrisponde quindi ad un aggravio dei costi di spedizione.

Il dazio ed il costo per le operazioni doganali devono essere pagati sia quando il prodotto viene inviato all’acquirente che alla restituzione, in caso di reso. Questo crea non pochi problemi per la vendita di tutti quei prodotti il cui costo non riesce ad assorbire il valore dell’imposta.

Deve inoltre essere fatta attenzione alla documentazione accompagnatoria dei prodotti per gli ordini diretti in UK. La documentazione per lo sdoganamento deve contenere informazioni precise sul prodotto, tra cui il codice doganale delle merci, la descrizione dettagliata (marchio, composizione, Paesi di origine), il numero di pezzi, il peso netto e lordo, il valore di ogni articolo e totale, il valore della spedizione, ecc.

CALCOLO DAZI DOGANALI E VERSAMENTO IVA

Per la gestione fiscale e contabile delle vendite online B2C transfrontaliere dell’UE verso il Regno Unito, devono essere tenuti in considerazione il valore della spedizione ed il canale di vendita, quali variabili per determinare l’ammontare della tassa e gli adempimenti da porre in essere.

Per le spedizioni di prodotti con valore complessivo non eccedente £ 135 (inteso come valore dei prodotti, non comprensivo di eventuali oneri, come le spese di spedizione):

non verrà applicato alcun dazio doganale (cd. “low value relief”);
L’IVA sarà dichiarata e versata trimestralmente dal venditore europeo all’HMR, l’agenzia delle entrate britanniche.

Per le spedizioni di prodotti con valore complessivo eccedente £135 verrà applicato il dazio doganale (che può essere calcolato al seguente link ) e l’IVA britannica.

Per tali casi il merchant dovrá decidere se includere il costo dei dazi doganali e dell’IVA nel prezzo di vendita, incaricando il corriere di versare gli oneri d’importazione o se addebitare al destinatario britannico i dazi e l’IVA con pagamento al corriere.

Per quanto concerne invece le vendite effettuate tramite marketplace dal 1° gennaio 2021:

l’applicazione del dazio doganale dipenderà dal valore del prodotto (se eccedente o meno £ 135)
per l’IVA saranno i marketplace (es. Amazon, eBay e Alibaba) i responsabili della riscossione e del versamento dell’Iva sulle vendite B2C realizzate da imprese europee non stabilite in UK, ma con un loro stock nel Paese. Il merchant italiano non stabilito in UK ma con stock in loco dovrà in ogni caso attivare una partita IVA britannica, che sarà necessaria per indicare il valore delle vendite tramite marketplace, così da fare reverse charge all’importazione o richiedere rimborsi, oltre che dichiarare e versare l’Iva sulle vendite B2B.

ADEMPIMENTI PER L’ESPORTAZIONE

Vanno quindi tenuti in considerazione i seguenti adempimenti per le vendite nel Regno Unito tramite e-commerce effettuate dal 1° gennaio 2021:

Attivazione di partita IVA britannica, mediante l’apertura di un account UK Government Gateway. Non è necessario possedere un conto bancario britannico per richiedere un numero di partita IVA britannico.
acquisizione del codice EORI (Economic Operator Registration and Identification): si tratta di un codice di identificazione doganale dell’operatore economico riconosciuto da tutte le autorità doganali comunitarie, che serve come riferimento comune per lo scambio di informazioni tra le autorità doganali, per l’identificazione degli operatori economici e per lo scambio di informazioni tra le autorità doganali ed altri enti/organismi/autorità.
Ricerca codice TARIC: ossia il codice attribuito a ciascun prodotto, necessario per il calcolo dei dazi doganali sulla merce. Un errore nella nomenclatura, e di conseguenza nella tariffa doganale e categoria merceologica, può portare ad una sanzione oltre che al blocco della merce.
Compilazione dei moduli di dichiarazione doganale CN22 e CN23: sono documenti che devono essere obbligatoriamente allegati ai pacchi spediti al di fuori della UE, che vengono usati dalle autorità doganali per verificare le merci in entrata e in uscita da un determinato paese. Contengono informazioni importanti sulla merce che viene spedita ad esempio quali articoli sono inclusi nella spedizione e che valore hanno, identificazione del mittente e del destinatario e quali sono i soggetti coinvolti nella spedizione.
Verifica della necessità di allegare al pacco spedito licenze, certificati o nulla osta di esportazione, che vengono richiesti in casi specifici per particolari categorie di articoli.

Approfondimenti

Smart Working e controlli a distanza dei lavoratori: geolocalizzazione e software ad hoc

La pandemia e la conseguente legislazione di emergenza hanno sdoganato l’istituto dello “smart- working” (per approfondire vai all’articolo:Smart-working-in-cosa-consiste-come-si-realizza-perche-conviene/) divenuto da strumento poco conosciuto ed utilizzato soltanto dalle multinazionali o realtà di grandi dimensioni e unicamente per determinati profili, a modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa per la maggior parte delle imprese italiane.

Il passaggio a tale modalità lavorativa è stato, infatti, largamente incentivato dai decreti-legge che si sono succeduti nel corso dei mesi dell’emergenza sanitaria introducendo una procedura di attivazione semplificata, senza necessità di accordo tra le parti, in deroga alla l. n. 81/2017 e con possibilità di semplificata di assolvere all’obbligo di informativa sulla sicurezza.

Tale strumento se da un lato ha sicuramente permesso la prosecuzione delle attività aziendale, dall’altro lato ha trovato impreparati molti datori di lavoro i quali, spesso ancorati alla concezione ordinaria del rapporto di lavoro parametrato su un determinato orario e sulla possibilità costante di controllare l’operato dei propri dipendenti si sono posti il problema di mantenere tali prerogative anche con i propri smart worker.

Ecco allora che le domande più frequenti che ci sono state rivolte sul tema sono state le seguenti:

È possibile installare (ed utilizzare per fini disciplinari) sui pc aziendali un software che tracci la presenza del dipendente davanti al computer e/o il suo collegamento alla rete aziendale?
Posso effettuare controlli da remoto dell’attività svolta dai dipendenti che si trovano in smart working?
È possibile geolocalizzare i dipendenti attraverso un GPS da inserire nel PC per sapere se effettivamente si trovano a casa durante l’orario lavorativo?

Per rispondere a tali interrogativi occorre partire dall’analisi dell’ art.. 4 dello Statuto dei lavoratori, espressamente richiamato anche dalla normativa regolatoria del lavoro agile (L. 81/2017), il quale prevede un regime diverso a seconda del tipo di strumento utilizzato.

In via generale sussiste un divieto generale di utilizzo di strumenti tecnologici finalizzati unicamente al controllo a distanza dell’attività lavorativa dei dipendenti.
Sono invece ammessi, previo accordo sindacale o autorizzazione della sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, i controlli a distanza dei lavoratori, effettuati attraverso determinate apparecchiature tecnologiche (impianti audiovisivi, strumenti di geolocalizzazione, ecc.) purchè installati in via primaria per esigenze di sicurezza del lavoro, per la tutela del patrimonio aziendale o per esigenze organizzative e produttive.
È espressamente escluso l’obbligo di accordo sindacale o di autorizzazione dell’ispettorato, laddove il controllo a distanza venga esercitato attraverso strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa” e gli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze. A tal fine l’Ispettorato del Lavoro e il Garante della Privacy hanno precisato che per “strumenti di lavoro” devono intendersi tutti quei dispositivi utilizzati in via primaria ed essenziale per l’esecuzione dell’attività lavorativa, ovvero direttamente preordinati all’esecuzione della prestazione lavorativa. (es. pc, telefono aziendale, posta aziendale).
Viene infine precisato dalla normativa che, in ogni caso, l’utilizzo delle informazioni raccolte è consentito a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro (anche disciplinare) a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto della normativa sulla privacy nella raccolta e nel trattamento dei dati.

L’informativa  deve contenere espressamente l’indicazione degli strumenti che consentono il controllo a distanza nelle loro caratteristiche e funzionamento, le modalità e le regole di utilizzo di tali strumenti, il tipo di controlli che potranno essere effettuati dall’azienda,   i dati conservati e i soggetti abilitati ad accedervi, nonché le modalità e i tempi di conservazione dei dati stessi e le eventuali sanzioni, anche di tipo disciplinare, che potranno essere comminate al dipendente/trasgressore.

In definitiva, quindi, in mancanza di una policy aziendale adeguata e in caso di raccolta e trattamento dei dati secondo modalità contrarie alla legge sulla privacy, i dati non possono essere utilizzati, ad esempio, in sede giudiziale per dimostrare l’illegittimità del comportamento del dipendente accertato sulla base dei dati raccolti dagli strumenti di lavoro e non.

All’esito della disamina sopra svolta, volendo fornire una risposta agli interrogativi sopra indicati, possiamo affermare quanto segue:

Sono vietati l’installazione e l’utilizzo di software o altre apparecchiature e sistemi di controllo a distanzasullo svolgimento della prestazione lavorativa del dipendente. Il ricorso a questi apparecchi può essere consentito solo in caso di accordo sindacale o di autorizzazione dall’Ispettorato territoriale del lavoro, per motivi di sicurezza aziendale o per esigenze produttive, che nel caso previsto nella prima domanda, difficilmente potrà essere raggiunto, trattandosi di strumenti unicamente a finalizzati al controllo dell’attività lavorativa
Il controllo anche se da remoto delle attività lavorative svolte tramite gli strumenti di lavoro, quali PC o posta elettronica, può essere effettuato a condizione che sia stata fornita adeguata informativa al dipendente e sia rispettata la normativa sulla privacy.
Il Garante per la privacy in più occasioni si è espresso nel senso di ritenere che gli strumenti di geolocalizzazione non costituiscono strumenti di lavoro, ma strumenti di controllo, che solo eccezionalmente si possono considerare in veri e propri strumenti di lavoro. Pertanto per la loro installazione è necessario procedere con accordo sindacale o autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro che verrà concessa solo ove rispondano ad un’effettiva esigenza organizzativa, produttiva o di sicurezza.

In conclusione, suggeriamo alle aziende che intendano continuare ad utilizzare lo smart working, anche dopo il periodo emergenziale, di prestare molta attenzione al tema del possibile controllo a distanza delle attività lavorative e regolare fin d’ora ogni aspetto, stipulando accordi con il lavoratore e dotandosi di una policy aziendale adeguata, spesso sottovalutata, ma di grande importanza per evitare spiacevoli sorprese sia in caso di accessi degli enti ispettivi, sia in caso di contenzioso con i dipendenti.

Approfondimenti

Espressioni sconvenienti nei rapporti con i magistrati o con i colleghi.

È principio fondamentale e soprattutto morale che nell’esercizio della professione l’avvocato deve porre ogni rigoroso impegno nella difesa del proprio cliente, senza però mai travalicare i limiti della rigorosa osservanza delle norme disciplinari e del rispetto che deve essere sempre osservato nei confronti della controparte, del suo legale, dei terzi e del magistrato, in ossequio ai doveri di lealtà, correttezza e ai principi di colleganza.

Il diritto di difesa, quindi, incontra un limite insuperabile nella civile convivenza e nel diritto della controparte, del suo legale o del giudice a non vedersi offeso o ingiuriato nel corso di un procedimento giudiziario.

L’avvocato ha, dunque, il dovere di comportarsi, in ogni situazione, con la dignità e con il decoro imposti dalla funzione che l’avvocatura svolge nella giurisdizione e deve in ogni caso astenersi dal pronunciare espressioni sconvenienti od offensive non solo nei confronti del collega avversario ma anche dei magistrati, delle parti e più in generale dei terzi, la cui rilevanza deontologica non è peraltro esclusa dalla provocazione altrui, né dallo stato d’ira o d’agitazione che da questa dovesse derivare (sentenza n. 42 del 25 Febbraio 2020).

Negli ultimi anni il Consiglio Nazionale Forense è intervenuto in più di un’occasione per fare chiarezza sulla normativa, evidenziando i limiti entro i quali è possibile esercitare il diritto di difesa e, quindi, le ipotesi di violazione dell’articolo 52 del Codice deontologico forense in cui incorre l’avvocato, basandosi soprattutto sulla norma di chiusura, secondo cui “la professione forense deve essere esercitata con indipendenza, lealtà, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo sociale e della difesa e rispettando i principi della corretta e leale concorrenza”. Del resto, “l’avvocato che faccia uso di espressioni sconvenienti ed offensive, anche mediante accuse rivolte direttamente ad un collega, pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante perché lesivo del dovere di colleganza e correttezza a cui ciascun professionista è tenuto” (in questi termini, Consiglio Nazionale Forense 20 marzo 2014 n. 31).

Secondo il Consiglio Nazionale Forense, il limite di compatibilità delle esternazioni verbali o verbalizzate e/o dedotte nell’atto difensivo dal difensore con le esigenze della dialettica processuale e dell’adempimento del mandato professionale, oltre il quale si prefigura la violazione dell’articolo 52 del Codice deontologico, va individuato nella intangibilità della persona del contraddittore.

Pertanto, si rientra nella sfera del lecito quando la disputa abbia un contenuto oggettivo e riguardi le questioni processuali dedotte e le opposte tesi dibattute, potendosi ammettere anche crudezza di linguaggio e asperità dei toni. Tuttavia, quando la diatriba trascende sul piano personale e soggettivo, l’esigenza di tutela del decoro e della dignità professionale forense impone di sanzionare i relativi comportamenti (così, CNF 25 settembre 2017 n. 136; CNF 29 novembre 2012 n. 159).

Di conseguenza, violano l’articolo 52 le espressioni usate dal professionista che rivestono un carattere obiettivamente sconveniente ed offensivo e che si situano ben al di là del normale esercizio del diritto di critica e di confutazione delle tesi difensive dell’avversario, per entrare nel campo, non consentito dalle regole di comportamento professionale, del biasimo e della deplorazione dell’operato dell’avvocato della controparte, dovendo peraltro ritenersi implicito l’«animus iniuriandi» nella libera determinazione di introdurre quelle frasi all’indirizzo di un altro difensore in una lettera ed in un atto difensivo (cfr. CNF 18 dicembre 2017 n. 207; CNF 21 dicembre 2009 n. 185).

L’impianto sanzionatorio è il seguente:

Sanzione attenuata
Sanzione Edittale
Sanzione Aggravata

Avvertimento
Censura
Sospensione fino ad un anno

 

Ai fini del trattamento sanzionatorio della condotta contestata, tuttavia, il Consiglio territoriale è tenuto ad operare un bilanciamento tra la considerazione di gravità dei fatti addebitati ed i concorrenti criteri di valutazione, pure rilevanti, connessi all’età dell’incolpato ed all’assenza di precedenti disciplinari (così, CNF 22 dicembre 2014 n. 204; CNF 27 febbraio 2013 n. 22).

Approfondimenti

Violazione dei segni distintivi ed internet: web sites e social media

Nel contesto attuale e con la progressiva espansione del web come luogo principale per la ricerca e lo scambio di informazioni ma anche come mercato unico globale per gli acquisti di prodotti, si sono moltiplicati i fenomeni di utilizzo illecito dei segni distintivi dell’impresa, che integrano atti di concorrenza sleale come previsto dall’art. 2958 c.c. .

L’Art. 2598 c.c. ,  rubricato Atti di concorrenza sleale prevede espressamente che: “Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque:

1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente;

2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente;

3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda.

 

In particolare, i fenomeni che si sono sviluppati maggiormente sul web sono quelli legati alla diluizione e svilimento del marchio, ossia quando ne viene lesa la capacità distintiva e questo non è più in grado di individuare un prodotto specifico, cosi da ingenerare confusione nel consumatore. Tale fenomeno si può sviluppare attraverso il turnishing ovvero quando un marchio noto viene utilizzato per distinguere prodotti di qualità inferiore o attraverso il blurring, ossia l’associazione del marchio a prodotti differenti da quelli che lo caratterizzano. Tali condotte sono idonee a creare pregiudizio alla distintività del marchio ed a pregiudicarne la reputazione.

Inoltre, sul web è molto comune rilevare un utilizzo della denominazione del marchio per indirizzare il traffico internet su siti diversi da quelli ad esso legittimamente riferibili ingenerando confusione nell’utente-consumatore.

In particolare alcune delle pratiche commerciali scorrette più comuni sul web, che proprio per le caratteristiche intrinseche di questo tipo di mercato, risultano particolarmente pregiudizievoli per i titolari di marchi noti, sono le seguenti:

registrazione nomi di dominio corrispondenti al marchio noto (cd. domain grabbing);
adozione dell’altrui marchio noto come meta-tag o adword;
utilizzo del marchio noto come username sui social network.

 

Registrazione  con riferimento al marchio noto:

Tale fenomeno consiste nella registrazione di un nome di dominio corrispondente ad un marchio altrui effettuata al fine di sfruttarne la notorietà. Tale condotta può pregiudicare la registrazione di un nome di dominio contente il proprio marchio, ma soprattutto può ingenerare confusione nel consumatore e conseguente sviamento della clientela, qualora nel sito vi siano ulteriori riferimenti al predetto marchio.

La giurisprudenza si è espressa per una piena tutela del nome di dominio, riconoscendo espressamente che lo stesso appartiene al novero dei segni distintivi dell’impresa, in quanto assimilabile ad un vero e proprio diritto di proprietà industriale, comunque meritevole di tutela perché identificativo anche se a livello tecnico. In assenza di una disciplina specifica, al fine di tutelare il nome di dominio, il richiamo normativo utilizzato è quello dell’art. 7 del Codice civile che sancisce espressamente il diritto al nome prevedendo che “La persona alla quale si contesti l’uso del proprio nome o che possa risentire del pregiudizio dall’uso che altri indebitamente ne faccia può chiedere la cessazione del fatto lesivo, salvo il risarcimento dei danni”. Inoltre, a tutela del nome a dominio, può essere richiamato il principio di unitarietà dei segni distintivi, all’art. 22 c.p.i., che permette al titolare del marchio rinomato di vietarne l’uso per prodotti o servizi anche non affini, qualora l’uso del segno senza giusto motivo consenta di trarre indebitamente vantaggio o rechi pregiudizio al titolare del marchio.

 

Adozione dell’altrui marchio noto come meta-tag o adword.

Un’ulteriore ipotesi di contraffazione online di marchi rinomati online non immediatamente percepibile dal consumatore consiste nell’uso del marchio rinomato altrui come meta-tag, ossia parole chiave, non immediatamente visibili sulla pagina web, impostate per aumentare la visibilità o la facilità di ricerca del sito web, tramite l’associazione ad una specifica pagina. Ciò ha come effetto che se l’utente ricerca quello specifico marchio, lo stesso venga indirizzato a pagine che non corrispondono allo stesso, ma che utilizzano meta tag ad esso riconducibili.

È evidente come tale utilizzo garantisca al sito web una visibilità, legata alla notorietà del marchio, che altrimenti non avrebbe e ciò con effetto diretto sullo sviamento della clientela. Inoltre, tale utilizzo spiega effetti anche sul valore del marchio che subisce un effettivo svilimento nell’essere messo a confronto con un marchio di minor valore e con prodotti di quest’ultimo.

Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che l’uso del marchio altrui nei meta-tag costituisce, oltre che una pratica di concorrenza sleale per violazione dei principi di correttezza professionale, una nuova ipotesi di contraffazione. La giurisprudenza si è spinta anche a configurare tale pratica come pubblicità ingannevole ai sensi e per gli effetti dell’art. 2 D.lgs. 145/2007 che prevede che “qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione, è idonea ad indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, sia idonea ledere un concorrente”.

 

Utilizzo del marchio noto come username sui social network.

I social network, in particolare Facebook, Instagram e Pinterest, sono ormai veri e propri canali di acquisti di prodotti, in particolare per la moda e l’arredamento che si basano su un sistema di sollecitazione di acquisto fondato su sponsorizzazioni, post ma anche scambio di opinioni dei consumatori. I social, nei quali manca tuttavia una sostanziale regolamentazione, hanno avuto l’effetto di aver aumentato le ipotesi di contraffazione. È comune, infatti, che il titolare di un marchio rilevi la presenza di account con denominazioni identiche al proprio marchio gestiti da terzi estranei oppure riscontri l’apertura di pagine con username che riproducono la denominazione del marchio. Anche in queste ipotesi, il principio che viene in aiuto è l’unitarietà dei segni distintivi di cui all’art. 22 c.p.i., analogamente a quanto sopra esposto, che permette al titolare del marchio rinomato di vietarne l’uso per prodotti o servizi anche non affini, qualora l’uso del segno senza giusto motivo consenta di trarre indebitamente vantaggio o rechi pregiudizio al titolare del marchio.

É evidente come l’ampiezza dei possibili contenuti che si trovano sul web e la molteplicità delle forme di commercializzazione e pubblicità danno luogo a molte e diverse ipotesi di lesione dei segni distintivi, per cui risulta sempre più necessario impostare attività di prevenzione e monitoraggio, nonché di attività dirette volti alla cessazione delle condotte descritte con interventi legali immediati a fine di scongiurare che tali pratiche possano avere importanti ricadute economiche e di prestigio sulle aziende titolari dei marchi.

 

Approfondimenti

Il mobbing e lo stalking occupazionale: un labile confine.

Si è recentemente conclusa una vicenda giudiziaria che vedeva protagonisti un lavoratore e il suo datore di lavoro.

Più nel dettaglio, il lavoratore lamentava l’esistenza di tutta una serie di condotte mobbizzanti poste in essere dal datore di lavoro, condotte che, a parere della Procura della Repubblica che ha rinviato a giudizio l’imprenditore e dei Giudici che successivamente lo hanno condannato, sono punibili penalmente ai sensi dell’art. 612 bis c.p. come stalking.

Non è il primo caso in cui la Corte di Cassazione ha riconosciuto l’esistenza di uno stalking c.d. occupazionale, punendo penalmente il datore di lavoro.

Innanzi tutto è necessario chiarire che il reato di atti persecutori si configura quando un soggetto pone in essere condotte reiterate volte a provocare nella vittima, alternativamente, uno dei tre eventi legislativamente previsti dalla norma:

un perdurante e grave stato di ansia o di paura;
un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona legata da relazione affettiva;
un cambiamento delle abitudini di vita.

A parere della Cassazione, è irrilevante il luogo ove tali eventi si verificano e, dunque, nel caso in cui il datore di lavoro realizzi più condotte finalizzate ad isolare e a vessare il lavoratore e quest’ultimo dimostri la realizzazione di uno degli eventi contemplati dall’art. 612 bis del c.p., la fattispecie assume non più e non solo rilevanza giuslavoristica, ma addirittura penalistica.

Solo a titolo esemplificativo, si potrà parlare di stalking occupazionale nel caso in cui vi sia una reiterata violenza psicologica nei confronti del lavoratore mediante un utilizzo eccessivo e pretestuoso di lettere di ammonimento, disciplinari, inviate anche nelle ore in cui il lavoratore non è in servizio attraverso posta elettronica, pec, whatsapp, di domenica o in altri giorni festivi, in orari serali o notturni, finalizzati a creare timore, ansia ed infastidire la tranquillità personale e familiare della vittima.

Ancora, le condotte potrebbero assumere una rilevanza penale nel caso in cui vi siano atteggiamenti minatori volti a paventare denunce o procedimenti disciplinari in danno del lavoratore, diffondere notizie false e denigratorie all’interno del luogo di lavoro, controllare continuamente l’operato del dipendente, rifiutare di concedere ferie o permessi e, chiaramente, demansionare gradatamente il lavoratore delle proprie mansioni fino ad arrivare, in taluni casi, a privarlo del tutto delle stesse.

Tali condotte potrebbero essere seguite dalla necessità del dipendente di allontanarsi o assentarsi dal luogo di lavoro per sfuggire proprio alla situazione fortemente ansiosa.

Sul piano del diritto civile, tali condotte reiterate vengono considerate molestie sessuali o mobbing.

A livello penalistico, la giurisprudenza e la dottrina, considerano lo stalking occupazionale diretta espressione dell’art. 2087 del c.c. che tutela l’integrità fisica e morale del prestatore d’opera, obbligo incombente sul datore di lavoro.

Da ciò consegue che il datore di lavoro che mette in pericolo tale integrità possa rispondere del reato previsto dall’art. 612 bis c.p..

Non solo.  La giurisprudenza si è spinta in alcuni casi ad affermare che se il datore di lavoro era a conoscenza delle condotte persecutorie denunciate dalla vittima e poste in essere dai superiori gerarchici e non si è attivato ed adoperato per far cessare le stesse, deve essere considerato responsabile in solido con il persecutore o stalker di tutti i danni ingiustamente cagionati alla vittima che potranno essere biologico, morale, esistenziale e patrimoniale.

 

 

Approfondimenti Consulenza societaria - contrattualistica d'impresa

Costituzione online delle società: entro agosto 2021 obbligo di recepimento della Direttiva UE 2019/1151

Entro il 1° agosto 2021 gli Stati UE dovranno adeguare il diritto nazionale per permettere, in alternativa alla procedura ordinaria, la costituzione online di Srl e Srls, la registrazione delle succursali e la presentazione di documenti e informazioni.

Secondo la direttiva UE 2019/1151 sull’utilizzo di strumenti e processi digitali nel diritto societario, la costituzione delle società dovrà poter essere completamente svolta telematicamente, senza che i richiedenti debbano comparire di persona dinanzi a un’autorità o a qualsiasi persona o organismo incaricato a norma del diritto nazionale di occuparsi di qualunque aspetto della costituzione online delle società, compresa la redazione dell’atto costitutivo.

L’obiettivo è quello di dimezzare le tempistiche di registrazione delle società e delle succursali e di ridurre in maniera significativa i relativi costi.

Dovranno essere resi disponibili, per Srl e Srls, i modelli sui portali o sui siti web per la registrazione, accessibili mediante lo Sportello digitale unico: il contenuto dei modelli dovrà essere disciplinato dal diritto nazionale.

Dovrà comunque essere mantenuta la possibilità di redigere gli atti costitutivi in forma di atto pubblico, se il diritto nazionale lo prevede.

 

IDENTIFICAZIONE DEI RICHIEDENTI

Per l’identificazione “a distanza” dei soggetti sottoscrittori potranno essere usati i mezzi adottati nell’ambito del regime di identificazione elettronica approvato a livello nazionale o quelli emessi in un altro Stato UE riconosciuti ai fini dell’autenticazione transfrontaliera nel rispetto delle condizioni del regolamento (UE) n. 910/2014 (regolamento e-IDAS).

Se giustificato da motivi di interesse pubblico per impedire l’usurpazione o l’alterazione di identità, gli Stati UE potranno adottare misure per richiedere una presenza fisica per la verifica dell’identità del richiedente dinanzi a un’autorità, persona od organismo incaricati dal diritto nazionale di trattare tali procedure, compresa l’elaborazione dell’atto costitutivo di una società, ma tale richiesta potrà essere avanzata solo “caso per caso” se vi sono motivi di sospettare una falsificazione dell’identità, mentre qualsiasi altra fase della procedura dovrà essere completata online.

Gli Stati UE dovranno stabilire le procedure per:

garantire che i richiedenti abbiano la capacità giuridica e la capacità di rappresentare la società;
predisporre i mezzi per la verifica dell’identità dei richiedenti;
verificare la legittimità dell’oggetto e della denominazione della società (se tali controlli sono previsti dal diritto nazionale);
verificare la nomina degli amministratori.

 

VERSAMENTO CAPITALE SOCIALE E PAGAMENTI

Per l’eventuale versamento del capitale sociale, il pagamento dovrà poter essere effettuato online su un conto corrente presso una banca che opera nell’Unione Europea. Anche la prova di tali pagamenti dovrà poter essere fornita online.

Gli eventuali pagamenti previsti per gli oneri della procedura dovranno essere online, consentendo “l’identificazione della persona che ha effettuato il pagamento” attraverso un servizio fornito da un istituto finanziario o da un prestatore di servizi di pagamento stabilito in uno Stato membro.

 

OBBLIGHI INFORMATIVI

La Direttiva prevede che vengano “rese disponibili informazioni concise e agevoli, gratuitamente, in almeno una lingua ampiamente compresa dal maggior numero possibile di utenti transfrontalieri, sui portali o sui siti web per la registrazione accessibili mediante lo sportello digitale unico, per assistere nella costituzione di società e nella registrazione di succursali”.

Le informazioni dovranno almeno riguardare le procedure previste per la costituzione delle società e per la registrazione delle succursali, una sintesi delle norme applicabili per diventare membri degli organi di amministrazione, gestione o vigilanza di una società e le altre modalità operative riguardanti la costituzione.

 

TEMPI DI COSTITUZIONE

La costituzione online dovrà essere completata entro i seguenti termini:

5 giorni lavorativi, se la società sarà costituita esclusivamente da persone fisiche che utilizzino i modelli di cui all’art. 13-nonies;
10 giorni lavorativinegli altri casi, a decorrere dall’ultimo degli adempimenti previsti dalla Direttiva (la data di adempimento di tutte le formalità richieste per la costituzione online, la data del pagamento di una commissione di registrazione, il pagamento del capitale sociale in contanti, etc).

In caso di ritardo il richiedente dovrà essere informato sulle motivazioni di tale ritardo.

 

AMMINISTRATORI INTERDETTI

Gli Stati membri dovranno introdurre a livello nazionale norme che disciplinino il caso in cui la persona che fa parte dell’organo amministrativo sia stata interdetta dalla funzione di amministratore.

 

TEMPI DI RECEPIMENTO DELLA DIRETTIVA

Per il recepimento delle nuove disposizioni sono previsti per gli Stati membri i seguenti termini:

entro il 1° agosto 2021 gli Stati dovranno trasporre nel diritto interno la direttiva (UE) 2019/1151, adottando le necessarie opportune disposizioni legislative, regolamentari e amministrative e informando immediatamente la Commissione;
entro il 1° agosto 2023 gli Stati dovranno:

à prevedere le procedure di costituzione online delle società, precisarne le modalità, mettere a disposizione i modelli sui portali o sui siti web per la registrazione accessibili mediante lo sportello digitale unico);

à stabilire le norme sull’interdizione degli amministratori

à prevedere la possibilità di verificare elettronicamente l’origine e l’integrità di informazioni e documenti societari presentati online;

à costituire un fascicolo presso il registro di commercio o presso il registro delle imprese per ogni società iscritta e predisposizione dell’identificativo unico europeo, “EUID”.

In deroga alla norma che fissa la scadenza del 1° agosto 2021, gli Stati membri che incontrano particolari difficoltà nel recepimento della direttiva (UE) 2019/1151 hanno il diritto di beneficiare di una proroga di massimo un anno, a patto che forniscano i “motivi oggettivi della necessità di tale proroga”: gli Stati membri dovranno notificare alla Commissione, entro il 1° febbraio 2021, l’intenzione di avvalersi della proroga.

 

Approfondimenti

Il Superbonus 110%: via libera agli interventi di efficientamento energetico.

Il 5 ottobre sono stati pubblicati i decreti attuativi del cd. “Decreto Rilancio” in relazione al cd. Superbonus 110%.

Le norme citate disciplinano dunque le modalità di accesso alle detrazioni fiscali per la riqualificazione energetica e interventi antisismici degli edifici.

Si tratta, dunque, di misure che hanno l’obiettivo di favorire gli interventi di efficientamento energetico e antisismici, nonchè l’installazione di impianti fotovoltaici o delle infrastrutture per la ricarica di veicoli elettrici negli edifici.

Ma che cos’è il superbonus 110%?

Si tratta, di una misura di agevolazione che eleva al 110% l’aliquota di detrazione delle spese sostenute dal 1° luglio 2020 al 31 dicembre 2021, per interventi in ambito di efficienza energetica, di interventi antisismici, di installazione di impianti fotovoltaici o delle infrastrutture per la ricarica di veicoli elettrici negli edifici.

Si rileva in primo luogo che tale detrazione non si sostituisce ma si aggiunge sia al sismabonus sia all’ecobonus, già presenti da qualche anno nel nostro ordinamento.

Ma l’aspetto più rilevante consiste nella facoltà per coloro che usufruiscono del Superbonus 110% di non optare per la detrazione diretta, ma di ottenere un’anticipazione sotto forma di sconto dai fornitori dei beni o servizi oppure di ottenere una cessione del credito corrispondente alla detrazione spettante.

La cessione può essere disposta in favore:

dei fornitori dei beni e dei servizi necessari alla realizzazione degli interventi;
di altri soggetti (persone fisiche, anche esercenti attività di lavoro autonomo o d’impresa, società ed enti);
di istituti di credito e intermediari finanziari.

La detrazione sarà ripartita in cinque quote annuali di pari importo, entro i limiti di capienza dell’imposta annua derivante dalla dichiarazione dei redditi.

Gli interventi interessati dal Superbonus possono essere “trainanti” o “trainati”.

Sono interventi trainanti quelli che possono essere eseguiti anche autonomamente e sono i seguenti:

interventi di isolamento termico sugli involucri
sostituzione degli impianti di climatizzazione invernale sulle parti comuni
sostituzione di impianti di climatizzazione invernale sugli edifici unifamiliari o sulle unità immobiliari di edifici plurifamiliari funzionalmente indipendenti. Attenzione:
interventi antisismici: la detrazione già prevista dal Sismabonus è elevata al 110% per le spese sostenute dal 1° luglio 2020 al 31 dicembre 2021.

Rientrano nel Superbonus anche le spese per interventi “trainati”, ovvero eseguiti insieme ad almeno uno degli interventi principali di isolamento termico, di sostituzione degli impianti di climatizzazione invernale o di riduzione del rischio sismico.

interventi di efficientamento energetico
installazione di impianti solari fotovoltaici
infrastrutture per la ricarica di veicoli elettrici

Mediante i recentissimi decreti attuativi sono stati definiti, sotto un profilo tecnico, i requisiti da rispettare, sotto il profilo tecnico, per aver diritto alla detrazione delle spese. Sono inoltre stabiliti i massimali di costo specifici per singola tipologia di intervento e le procedure e le modalità di esecuzione di controlli a campione volti ad accertare il rispetto dei requisiti che determinano l’accesso al beneficio.

Infine, vengono stabilite le modalità di trasmissione del modulo delle asseverazioni, poi trasmesse ai vari organi competenti tra cui ovviamente l’Enea.

Per gli interventi la cui data di inizio lavori – comprovata tramite apposita documentazione – sia antecedente a quella di entrata in vigore del decreto, valgono invece le disposizioni del Decreto Ministeriale del 19 febbraio 2007. Per poter richiedere il superbonus 110% anche in caso di lavori effettuati prima del 6 ottobre è necessario acquisire l’asseverazione che comprenda la dichiarazione di congruità delle spese sostenute dal 1° luglio 2020 al 31 dicembre 2021.

 

Approfondimenti

Il divieto dei licenziamenti a durata variabile: facciamo chiarezza

Il divieto dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo costituisce una delle misure più discusse che i vari decreti succedutesi a partire dal D. Cura Italia per fronteggiare l’emergenza sanitaria ed economica da Corona Virus hanno introdotto.

L’art. 14 del decreto Agosto (D.L. 14 agosto 2020, n. 104) al fine di bilanciare le contrapposte esigenze sindacali ed aziendali rispettivamente a sostegno e critica della sospensione dei licenziamenti  inizialmente previsto fino al 17 agosto 2020, ha individuato un sistema combinato di misure che rendono il termine per la decadenza del divieto variabile a seconda della scelta effettuata dalla singola azienda, prevedendo altresì una serie di deroghe al divieto.

La durata variabile 

Il Decreto Agosto ha, infatti,  previsto da un lato un nuovo periodo di ammortizzatori sociali da utilizzare tra il 14 Luglio 2020 e il 31 Dicembre 2020 per un totale di 18 settimane (art. 1 D.L. 104/2020); dall’altro lato ha individuato una nuova misura destinata alle aziende che non intendono utilizzare il nuovo periodo di cassa integrazione consistente in un esonero contributivo per un periodo massimo di 4 mesi e per un monte ore pari al doppio di quelle utilizzate per CIG nei mesi di maggio e giugno 2020. (art. 3 D.L. 104/2020)

Si è quindi stabilito che il divieto di licenziamento per motivi economici  decadrà entro il termine ultimo del 31.12.2020 in un momento diverso a seconda della  misura adottata dall’azienda ovvero:

1) dopo la totale fruizione delle ulteriori 18 settimane di ammortizzatori sociali previsti dall’art. 1 del Decreto, oppure

2) al termine dell’utilizzo dell’agevolazione contributiva prevista dall’art. 3 del D.L. 104/2020

con la conseguenza che il termine del divieto potrà essere per le singole aziende sensibilmente diverso.

A titolo esemplificativo si osservi che se un’azienda ha usufruito del trattamento di integrazione salariale in via continuativa dall’inizio dell’emergenza la sospensione dei licenziamenti terminerà il 16 novembre 2020, se invece è stato operato un frazionamento, con saltuaria riammissione totale dei dipendenti e/o utilizzo delle ferie, il divieto potrà arrivare fino al termine ultimo del 31 Dicembre 2020.

Ed ancora, ove l’azienda avesse optato (con scelta irreversibile) per l’agevolazione contributiva e nei mesi di maggio e giugno 2020 avesse ipoteticamente sfruttato soltanto due settimane di cassa integrazione già dopo un mese dal 17 agosto 2020 potrebbe trovarsi nelle condizioni di poter licenziare.

I chiarimenti dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro 

Sull’operatività di tale differenti misure si rileva che la recente  circolare dell’Ispettorato del Lavoro del 17.09.2020 ha chiarito, essendo emersi dubbi interpretativi sul punto, che potranno beneficiare dell’agevolazione contributiva anche i datori di lavoro ammessi al trattamento di cassa integrazione ai sensi del D.L. n. 18/2020 (Cura Italia) e che abbiano fruito di periodi di cassa, anche parzialmente, dopo il 12 luglio. Si precisa, inoltre, che laddove si riscontri la violazione del divieto di cui all’art. 14, verrà disposta la revoca dell’esonero con efficacia retroattiva ed al contempo l’impossibilità di presentare domanda per i trattamenti di integrazione salariale (comma 3). Il beneficio è altresì cumulabile con altri esoneri o riduzioni delle aliquote di finanziamento previsti dalla normativa vigente, nei limiti della contribuzione previdenziale dovuta.

Deroghe al divieto

L’art. 14 del D. Agosto ha introdotto, inoltre,  alcune deroghe espresse al divieto di licenziamento, prevedendo che i datori di lavoro possano procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo nei seguenti casi:

Cessazione definitiva dell’attività dell’impresa, con messa in liquidazione della società. Una cessazione parziale come, ad esempio, la chiusura di una unità produttiva di per sé non porta alla sospensione del blocco.
Accordo collettivo aziendale: si concede alle aziende la possibilità di procedere ad una riduzione di personale previo raggiungimento di un accordo con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, con un incentivo all’esodo per i dipendenti che aderiscono, ai quali viene riconosciuto il diritto alla NASPI, , pur trattandosi di una risoluzione consensuale.
Fallimento della società senza alcun esercizio provvisorio dell’attività, con cessazione totale della stessa. Anche in questo caso, non opera il divieto nel caso in cui sia stato disposto l’esercizio provvisorio dell’attività da parte di un ramo dell’azienda, resteranno esclusi i settori non compresi nel fallimento.

Licenziamenti esclusi dal divieto

Si ricorda, infine, che i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, soggetti al divieto di cui si è sopra detto, non esauriscono i possibili recessi datoriali che, comunque, restano ammissibili in questo periodo e che elenchiamo di seguito:

i licenziamenti per motivi soggettivi adottati al termine della procedura disciplinare di cui all’art. 7 L. 300/1970, siano essi per giusta causa che per giustificato motivo soggettivo
i licenziamenti per raggiungimento del limite massimo di età per la fruizione della pensione di vecchiaia;
i licenziamenti determinati da superamento del periodo di comporto. Rispetto a tali licenziamenti occorre porre attenzione alle eventuali assenze per malattia connesse al periodo di quarantena e/o isolamento domiciliare che non possono essere conteggiate ai fini del computo del periodo di comporto (art. 26, comma 1, del decreto 18/2020 e successive modifiche)
i licenziamenti durante o al termine del periodo di prova
i licenziamenti dei dirigenti sulla base della c.d. “giustificatezza”;
i licenziamenti dei lavoratori domestici
la risoluzione del rapporto di apprendistato al termine del periodo formativo a seguito di recesso ex art. 2118 c.c. Si consideri, sul punto, che il periodo formativo dell’apprendistato professionalizzante è prorogato per un periodo uguale a quello in cui l’apprendista ha fruito della integrazione salariale.