Approfondimenti Consulenza societaria - contrattualistica d'impresa News

Gli obblighi per le aziende in materia di whistleblowing

Il D.Lgs. 24/2023, pubblicato in Gazzetta Ufficiale S.G. n. 63 del 15 marzo 2023, ha recepito nell’ordinamento giuridico italiano la normativa comunitaria a tutela dei soggetti che segnalano attività illecite o frodi all’interno di un’organizzazione pubblica o privata, c.d. “whistleblower”. L’obiettivo di tale normativa è creare un’armonizzazione in tutti gli Stati membri in tema di protezione delle persone che segnalano violazioni di disposizioni normative nazionali o UE che ledono l’interesse pubblico, o l’integrità della pubblica amministrazione ovvero dell’ente privato, di cui siano venute a conoscenza in un contesto lavorativo pubblico o privato. Per “whistleblowers” si intendono non solo dipendenti, ma anche lavoratori autonomi, liberi professionisti e consulenti, i volontari e i tirocinanti, gli azionisti e le persone con funzioni di amministrazione, direzione, controllo e vigilanza o rappresentanza, i candidati, i lavoratori in prova e gli ex dipendenti. GLI OBBLIGHI: Gli obblighi riguardano l’attivazione di canali interni all’azienda per la segnalazione delle violazioni che vengono riscontrate. In alcuni casi è ammesso anche che la segnalazione sia realizzata in via esterna ovvero dandone divulgazione pubblica (per esempio tramite ANAC). Più precisamente, ogni impresa dovrà: istituire canali interni per consentire segnalazioni in forma scritta, anche con modalità informatiche (per esempio piattaforme online), oppure in forma orale, attraverso linee telefoniche, sistemi di messaggistica vocali o incontri diretti con il gestore della segnalazione;affidare la gestione dei canali interni a una persona o a un ufficio interno autonomo, dedicato e con personale specificamente formato, o a un soggetto esterno (il c.d. Ombudsman), anch’esso autonomo e specificamente formato;adottare una procedura per regolamentare in modo preciso la gestione delle segnalazioni, prevedendo tempistiche certe (un avviso di ricevimento entro 7 giorni dalla presentazione della segnalazione e un riscontro sull’esito entro i successivi 3 mesi) e l’obbligo di dare un seguito diligente alle segnalazioni stesse, valutando la veridicità e la sussistenza dei fatti riportati e adottando le necessarie azioni correttive;mettere a disposizione dei possibili segnalanti informazioni chiare sul canale, sulle procedure e sui presupposti per effettuare le segnalazioni interne o esterne (utilizzando il canale appositamente istituito presso l’ANAC) o le divulgazioni pubbliche (tramite mass media);garantire misure di tutela per i segnalanti, consistenti in particolare nella riservatezza della loro identità, con l’esecuzione dei necessari adempimenti in materia di data protection e cyber security, e nel divieto di ritorsioni dirette e indirette nei loro confronti (ad esempio: licenziamento, sospensione, retrocessione di grado o mancata promozione, demansionamento, referenze negative, intimidazioni o molestie, danni reputazionali ecc.). Gli enti privati che hanno meno di 250 dipendenti potranno istituire un canale di segnalazione interna senza obbligo di istituire quello di segnalazione esterna. Un altro adempimento per l’azienda consiste nella conservazione di tutte le segnalazioni ricevute in luogo sicuro in modo che possano essere utilizzate come prove, se necessario. LE SEGNALAZIONI: In particolare, i dipendenti pubblici possono segnalare violazioni sia del diritto comunitario che del diritto interno, attraverso tutti i canali di segnalazione previsti, mentre per i dipendenti del settore privato, la normativa applica una distinzione: I dipendenti di enti privati che nell’ultimo anno hanno impiegato una media di oltre 50 lavoratori e lavoratori di enti che, a prescindere dalle dimensioni, rientrano nell’ambito di applicazione degli atti dell’Unione indicati dalla Direttiva (UE) 2019/1937 potranno segnalare soltanto le violazioni del diritto dell’Unione Europea, ovviamente attraverso i canali di segnalazione previsti dal decreto.Gli impiegati presso aziende con una media di lavoratori superiore alle 50 unità, invece, il whistleblower avrà la possibilità di segnalare sia le violazioni contemplate dalla nuova normativa, sia quelle attinenti al diritto dell’Unione Europea, sempre attraverso i canali previsti dal decreto. LA TUTELA DELLA RISERVATEZZA DEL WHISTLEBLOWER: La disciplina introdotta dal D. LGS. 24/2023 rinforza inoltre la tutela della riservatezza del segnalante, disponendo varie misure di protezione che comprendono: l’obbligo di riservatezza in ordine all’identità del segnalante, salvaguardando però anche i diritti di difesa della persona coinvolta/segnalata;un generale divieto di ritorsione;misure di sostegno in favore del whistleblower, assicurate dagli enti del Terzo settore, che sono inseriti in elenchi tenuti dall’ANAC e che forniscono dette misure di sostegno, sulla base di convenzioni stipulate con la stessa autorità. I TERMINI PER L’ADEGUAMENTO: Il decreto detta una serie di obblighi per le aziende italiane pubbliche e private che dovranno essere adempiuti entro specifici termini: Se l’azienda ha più di 250 dipendenti è tenuta a implementare un sistema di segnalazione di illeciti interno entro il 15 luglio 2023;Se l’azienda ha più di 50 dipendenti il termine è esteso fino al 17 dicembre 2023 per adeguarsi ai nuovi requisiti. LE SANZIONI: La normativa prevede un regime sanzionatorio applicabile in caso di violazione delle norme del decreto. In particolare, l’ANAC può infliggere al responsabile delle sanzioni amministrative pecuniarie nei casi in cui: Siano state commesse delle ritorsioni, o qualora si accerti che la segnalazione sia stata ostacolata o che l’obbligo di riservatezza sia stato violato;Non siano stati istituiti canali di segnalazione;non siano state adottate procedure per l’effettuazione e la gestione delle segnalazioni;l’adozione delle procedure non sia conforme alle disposizioni del decreto. È stato inoltre previsto uno specifico regime di responsabilità per il segnalante nell’eventualità in cui abbia formulato segnalazioni diffamatorie o calunniose, commesse con dolo o colpa grave.  Un’ulteriore sanzione è stata istituita per il caso di mancato adeguamento entro i termini stabiliti (15 luglio e 17 dicembre), per la quale l’azienda potrà incorrere in sanzioni fino a 50.000 euro.
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I CCNL nelle procedure di affidamento dei contratti pubblici.

Il 1° aprile 2023 è entrato in vigore il nuovo Codice dei contratti pubblici (D.lgs. 31 marzo 2023, n. 36), le cui norme troveranno applicazione dal 1° luglio 2023.

Il decreto, che sostituisce il D.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, è stato adottato per dare attuazione ai principi espressi nella legge delega 21 giugno 2022, n. 78, tra i quali rientrano:

la semplificazione delle norme;
la digitalizzazione;
la trasparenza;
la tutela dei lavoratori.

In particolare l’art. 11 disciplina il principio di applicazione dei contratti collettivi nazionali e di settore e i profili relativi alle inadempienze e al ritardo dei pagamenti.

 

Come viene precisato anche nella relazione illustrativa, tale principio non estende l’efficacia del contratto collettivo di settore a tutti i lavoratori, ma si limita a indicare le condizioni contrattuali minime che l’aggiudicatario deve applicare al personale impiegato.

 

È al secondo comma che la norma in esame mostra tutta la sua portata innovativa: si prevede infatti l’obbligo per le stazioni appalti e per gli enti concedenti di indicare nei bandi e negli inviti il contratto collettivo applicabile al personale dipendente impiegato nell’appalto o nella concessione. In altre parole, il contratto collettivo da applicare al personale dipendente viene indicato negli atti di gara dalla stazione appaltante.

 

Emerge però una criticità: L’operatore economico può applicare un contratto collettivo differente da quello previsto in gara? se ciò è possibile, qual è il criterio per stabilire se il contratto collettivo applicato sia idoneo allo svolgimento dell’appalto?

 

Dalla piana lettura della norma, la risposta al primo quesito formulato sembra positiva purchè:

 

laddove l’operatore economico concorrente applichi un contratto collettivo differente, dovrà indicare nella propria offerta il differente contratto collettivo applicato;
il predetto CCNL garantisca ai dipendenti le stesse tutele di quello indicato dalla stazione appaltante o dall’ente concedente”;
prima dell’affidamento o dell’aggiudicazione le stazioni appaltanti acquisiscano la dichiarazione con la quale l’operatore economico individuato si impegna ad applicare il contratto collettivo nazionale e territoriale indicato nell’esecuzione delle prestazioni oggetto del contratto per tutta la sua durata, ovvero la dichiarazione di equivalenza delle tutele. (…).

 

Gli operatori economici possono quindi applicare anche un contratto diverso da quello individuato dalla stazione appaltante (purché coerente con l’oggetto dell’appalto), ma devono dichiaralo nella propria offerta, impegnandosi ad assicurane l’applicazione per tutta la durata dell’appalto. Alla stazione appaltante resta poi il compito di valutare la dichiarazione per verificare se il contratto collettivo indicato dall’operatore economico garantisca le medesime tutele riportato negli atti di gara.

 

Tuttavia le norme in commento non sembrano risolvere a pieno la problematica, perché vi possono essere casi in cui siano individuabili più contratti collettivi molto diversi tra loro, con caratteristiche e standard di tutela differenti (si pensi al caso di un appalto di fornitura, che preveda anche il trasporto e il montaggio).

 

Le medesime condizioni vengono inoltre garantite ai subappaltatori. Anche l’operatore economico che agisce in subappalto sarà quindi chiamato ad applicare il contratto collettivo nazionale indicato negli atti di gara, ovvero uno che garantisca ai propri dipendenti le medesime tutele.

 

Resta in essere quanto già previsto dal vecchio codice con riferimento all’intervento sostitutivo della stazione appaltante nel caso di inadempienze contributive o retributive dell’impresa affidataria o del subappaltatore.

In particolare:

– In caso di inadempienza contributiva risultante dal documento unico di regolarità contributiva (DURC) relativo a personale dipendente dell’affidatario (o dell’eventuale subappaltatore) impiegato nell’esecuzione del contratto, la stazione appaltante trattiene dal certificato di pagamento l’importo corrispondente all’inadempienza ed esegue il versamento diretto agli enti previdenziali e assicurativi, compresa, nei lavori, la cassa edile. Sull’importo netto progressivo delle prestazioni viene operata una ritenuta dello 0,50 per cento. Le ritenute possono essere svicolate soltanto dopo il collaudo o la verifica di conformità, in sede di liquidazione finale, qualora sia stato rilasciato il DURC;

– Nel caso di ritardo nel pagamento dovuto al personale dipendente, il RUP invita per iscritto il soggetto inadempiente, ed in ogni caso l’affidatario, a provvedervi entro i successivi 15 quindici giorni. Qualora non sia stata contestata formalmente e motivatamente la fondatezza della richiesta entro il termine suddetto la stazione appaltante paga anche in corso d’opera direttamente ai lavoratori le retribuzioni arretrate, detraendo il relativo importo dalle somme dovute all’affidatario del contratto ovvero dalle somme dovute al subappaltatore inadempiente nel caso in cui sia previsto il pagamento diretto.

 

Conclusioni:

Senza dubbio l’art. 11 del D.lgs. 36/2023 amplia la tutela per il personale dipendente impiegato negli appalti pubblici.

Tuttavia, come abbiamo visto, restano aperte questioni non di poco conto, non essendo sempre possibile individuare in modo coerente il contratto collettivo applicabile all’appalto in questione.

Sarà quindi importante verificare in sede di applicazione quale sarà la prassi che si consoliderà ed eventualmente i criteri suggeriti dalla giurisprudenza per la corretta individuazione del contratto collettivo/dei contratti collettivi applicabili nelle varie tipologie di appalto.

Approfondimenti Diritto del lavoro

È possibile controllare un dipendente tramite un investigatore privato?

PREMESSA

Il tema della possibilità per il datore di lavoro di richiedere l’intervento di un’agenzia investigativa per “controllare” un dipendente è assai delicato, andando a coinvolgere due contrapposti interessi, da un lato la riservatezza personale dei lavoratori, dall’altro l’interesse economico dell’azienda a fronte di possibili illeciti del proprio sottoposto.

Va tuttavia fin da subito precisato che né lo Statuto dei lavoratori, né altre norme di legge precludono in via assoluta al datore di lavoro di ricorrere ad agenzie investigative per controllare i dipendenti, e la giurisprudenza di legittimità ammette pacificamente l’utilizzabilità delle risultanze investigative ai fini disciplinari e quindi, anche per provare la giusta causa di un licenziamento.

Ricorrere a tali modalità di indagine si ritiene generalmente giustificato non solo per dimostrare l’avvenuta perpetrazione degli illeciti e l’esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o dell’ipotesi che tali illeciti siano in corso di esecuzione.

LIMITI

Ciò premesso, va tuttavia rilevato che tale tipologia di controlli per essere validi, non possono in nessun caso consistere nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria.

L’attività investigativa disposta dal datore deve, dunque, avere ad oggetto l’accertamento di condotte illecite diverse dal solo adempimento della prestazione lavorativa.

Lo Statuto dei Lavoratori, infatti, riserva quest’ultimo tipo di controllo proprio al datore di lavoro e alla propria organizzazione gerarchica e non consente che venga affidato a soggetti terzi alla struttura aziendale.

Deve trattarsi, in altre parole, di controlli finalizzati ad accertare l’esistenza di fatti illeciti, anche penalmente rilevanti, che possono avere una rilevanza indiretta nel rapporto lavorativo, incidendo nella valutazione dell’aspetto fiduciario, ovvero del rispetto degli obblighi di lealtà, fedeltà e correttezza da parte del lavoratore.

Per spiegarci meglio vediamo alcuni casi pratici analizzati da alcune sentenze della Corte di Cassazione.

CASI PRATICI

ABUSO DEI PERMESSI EX L. 104/1992

È legittimo il controllo demandato dal datore di lavoro ad un’agenzia investigativa, finalizzato all’accertamento dell’utilizzo improprio dei permessi ex art. 33 della L. 5 febbraio 1992 n. 104 (comportamento suscettibile di rilevanza anche penale).

Tale controllo, infatti, non riguarda l’adempimento della prestazione lavorativa, essendo effettuato al di fuori dell’orario di lavoro ed in fase di sospensione dell’obbligazione principale di rendere la prestazione lavorativa, sicché esso non può ritenersi precluso.

ALLONTANAMENTO NON AUTORIZZATO DAL LUOGO DI LAVORO

Al contrario, non è considerato legittimo l’utilizzo delle risultanze investigative da parte del datore di lavoro privato finalizzate ad accertare che il lavoratore durante l’orario di lavoro sia solito allontanarsi dal posto di lavoro senza autorizzazione, per occuparsi di attività personali esterne alla sede di lavoro ed estranee alle proprie mansioni.

La Cassazione ha recentemente stabilito che tali tipo di controlli sono inammissibili in quanto rientranti nel controllo della prestazione lavorativa vietati dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori e dei doveri di buona fede e correttezza.

Le risultanze non possono quindi essere utilizzate per finalità disciplinari neppure se raccolte, indirettamente, durante un controllo investigativo legittimamente disposto nei confronti di un altro dipendente.

SIMULAZIONE MALATTIA

È, invece,  pacificamente ritenuto legittimo il controllo investigativo finalizzato ad accertare fatti idonei a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a determinare uno stato di incapacità lavorativa rilevante e, quindi, a giustificarne l’assenza del lavoratore. Rispetto a tale specifico aspetto la giurisprudenza ha ritenuto che in tema di licenziamento per giusta causa, la disposizione di cui all’art. 5 St. lav. che vieta al datore di svolgere accertamenti sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente o lo autorizza ad effettuare il controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, non preclude al datore medesimo di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a determinare uno stato di incapacità lavorativa rilevante e, quindi, a giustificarne l’assenza.

ABUSO DEI CONGEDI PARENTALI

È legittimo, inoltre, il controllo tramite agenzia finalizzato ad accertare l’abuso da parte del lavoratore del diritto potestativo di congedo parentale. In tali casi, però affinché il licenziamento sia legittimo occorre accertare che il diritto venga esercitato per la maggior parte del tempo, non per la cura diretta del bambino, bensì per attendere ad altra attività, come esercitare un altro impiego di lavoro o per attività del tutto estranei alla tutela e assistenza del minore.

CONCORRENZA SLEALE

Sono stati, in alcuni casi, ritenuti legittimi i controlli mirati all’accertamento della violazione del divieto di concorrenza del dipendente in corso di rapporto (tra cui si segnala il caso dell’estetista che nel giorno di riposo esercitava l’attività in proprio presso il suo domicilio), perché non riguarda lo svolgimento del lavoro, ma un illecito commesso fuori dell’orario di servizio e comunque passibile di conseguenze dannose per l’azienda.

CONCLUSIONI

Prima di ricorrere all’utilizzo di un’agenzia investigativa occorre valutare attentamente la finalità della richiesta, tenendo presente che i relativi risultati, seppur comprovanti un comportamento inadempiente del lavoratore, non sempre possono essere validamente utilizzati per fondare un procedimento disciplinare per licenziamento, a prescindere dalla gravità della condotta accertata.

È sempre opportuno, dunque, affidarsi ad un consulente esperto per un’attenta valutazione preliminare della problematica emersa e dell’esigenza dell’azienda.

 

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La liquidazione giudiziale: le principali novità introdotte dal Codice delle crisi d’impresa e dell’insolvenza

Il 15 Luglio 2022 è entrato in vigore il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (in forma abbreviata C.C.I.I.) di cui al D.lgs. n. 14 del 12.01.2019, che è stato oggetto di un primo intervento correttivo nel 2020 (D.lgs. 26.10.2020, n. 147) e di un recente ed ulteriore aggiornamento normativo nel 2022 (d.lgs. 17 giugno 2022, 83) finalizzato a dare attuazione alla cd. Direttiva Insolvency (Dir. UE 2019/1023 del 20 giugno 2019).

Dalla lettura del nuovo C.C.I.I. si evince che, le norme relative al procedimento di liquidazione giudiziale (artt. da 121 a 283 del C.C.I.I.), sono state collocate dal legislatore dopo le norme dirette a regolamentare le altre procedure concorsuali; ciò a dimostrazione del fatto che, la liquidazione giudiziale costituisce una procedura avente carattere residuale rispetto agli altri procedimenti che, al contrario, favoriscono la continuità aziendale ed il risanamento dell’impresa.

A di là delle innovazioni terminologiche, quale a titolo di esempio, la sostituzione della parola “fallimento” con quella di “liquidazione”, la disciplina dettata dal C.C.I.I. ha mantenuto invariate le caratteristiche principali della procedura, introducendo una riorganizzazione dell’assetto normativo precedente al fine di rendere la “nuova” procedura liquidatoria più rapida e snella.

 

PRESUPPOSTO SOGGETTIVO

Infatti, con riferimento al presupposto soggettivo, l’art. 121 C.C.I.I. stabilisce che le disposizioni sulla liquidazione giudiziale si applicano agli imprenditori commerciali che non dimostrino di essere “imprese minori” secondo i requisiti previsti dall’art. 2, co. 1, lett. d), C.C.I.I.

Per “imprese minori”, si intendono quelle imprese che presentino congiuntamente i seguenti requisiti:

un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro 300.000,00 nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di apertura della liquidazione giudiziale o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore;
ricavi, in qualunque modo essi risultino, per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro 200.000,00 nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di apertura della liquidazione giudiziale o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore;
un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila.

Le norme sulla liquidazione giudiziale si applicano quindi nei confronti dell’imprenditore commerciale, con esclusione delle imprese agricole, dei professionisti e dei consumatori nei cui confronti sono applicabili, al contrario, le norme relative alle procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento.

 

PRESUPPOSTO OGGETTIVO

Relativamente al presupposto oggettivo, è necessaria la sussistenza in capo al debitore dello “stato di insolvenza”, come definito dall’art. 2, co. 1, lett. b), C.C.I.I. e che si sostanzia in azioni di inadempimento o altri fatti esteriori, tali da dimostrare che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni.

Rimane comunque fermo il principio per cui non si fa luogo alla sentenza di apertura della liquidazione giudiziale, se l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati sia complessivamente inferiore ad euro 30.000,00.

 

LEGITTIMAZIONE

La legittimazione a richiedere l’apertura della procedura liquidatoria, ai sensi dell’art. 37, comma 2, C.C.I.I., è riconosciuta al debitore, ad uno o più creditori o al pubblico ministero; tuttavia, è prevista dal nuovo Codice la legittimazione degli organi e delle autorità amministrative aventi funzioni di controllo e di vigilanza sull’impresa.

 

PROCEDIMENTO DI LIQUIDAZIONE

Per quanto attiene allo svolgimento del procedimento di liquidazione, la disciplina dettata dal nuovo C.C.I.I. ricalca sostanzialmente quella delineata dalla legge fallimentare.

Viene infatti previsto un termine di convocazione delle parti non inferiore a 15 giorni rispetto alla data di notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza, al fine di garantire un adeguato diritto di difesa e salva la possibilità di abbreviazione dei termini nei casi di urgenza. Inoltre è prevista la possibilità di delega, da parte del Tribunale, al giudice relatore, ai fini dell’audizione delle parti, dell’ammissione e dell’espletamento dei mezzi istruttori.

I singoli atti di liquidazione devono essere autorizzati dal giudice delegato, che ne valuta la conformità al programma approvato (art. 213, comma 7, C.C.I.I.).

Le modalità di liquidazione sono disciplinate dall’art. 216 C.C.I.I., che dispone che la vendita dei beni sia effettuata con procedure competitive e con modalità telematiche, tramite il portale delle vendite pubbliche, salvo che tali modalità siano pregiudizievoli per gli interessi dei creditori.

Il giudice delegato, oltre a determinare le modalità di liquidazione dei beni, può anche ordinare la liquidazione di beni immobili occupati dal debitore (salvo che non si tratti della sua abitazione) o da terzi in forza di titolo non opponibile al curatore.

 

PROCEDURA

Una novità rilevante riguarda l’intervento di terzi nel corso del procedimento, che sarà sempre possibile, ovviamente se si tratta di terzi legittimati alla presentazione della domanda di apertura della procedura, fino a quando il giudice delegato o il Tribunale non si riservino per la decisione.

È stato previsto altresì l’obbligo per la cancelleria, a seguito del deposito della domanda di apertura della liquidazione giudiziale o del concordato preventivo, di acquisire mediante collegamento telematico diretto alle banche dati dell’Agenzia delle entrate, dell’Inps e del registro delle imprese, i dati e i documenti relativi al debitore.

L’art. 43 C.C.I.I. disciplina poi la fattispecie della rinuncia alla domanda di apertura della liquidazione giudiziale, stabilendo che il procedimento si estingua, con possibilità di condanna alle spese della parte che ha dato avvio al giudizio.

Nell’ottica di una maggiore celerità, il curatore, previa autorizzazione del comitati dei creditori, potrà non acquisire o rinunciare alla liquidazione di beni, se l’attività di liquidazione appare manifestamente non conveniente; tale mancanza di convenienza si presume se, dopo 6 tentativi di vendita, non ha fatto seguito l’aggiudicazione, salvo che il giudice delegato non autorizzi il curatore a continuare l’attività liquidatoria, in presenza di giustificati motivi (art. 213, comma 2, C.C.I.I.).

 

ACCERTAMENTO DEL PASSIVO

In merito all’accertamento dello stato passivo, l’art. 201, comma 1, C.C.I.I. stabilisce che la procedura di accertamento del passivo venga estesa anche alle “domande di partecipazione al riparto delle somme ricavate dalla liquidazione di beni compresi nella procedura ipotecati a garanzia di debiti altrui” e quindi a quei creditori che non sono tali nei confronti del debitore, ma in favore dei quali lo stesso debitore si è posto come terzo datore di ipoteca.

Per quanto riguarda le domande tardive, l’art. 208 C.C.I.I. ha previsto la riduzione da 12 mesi a 6 mesi dal decreto di esecutività dello stato passivo per la presentazione di tali domande; con riferimento alle domande cd. “supertardive”, è stata prevista la possibilità di una declaratoria di inammissibilità con decreto del giudice delegato, “quando la domanda risulta manifestamente inammissibile perché l’istante non ha indicato le circostanze da cui è dipeso il ritardo o non ne ha offerto prova documentale o non ha indicato i mezzi di prova di cui intende valersi per dimostrarne la non imputabilità” (art. 208, comma 3, C.C.I.I.)”.

Per garantire la speditezza e celerità della procedura, è stato inoltre stabilito che nel programma deve essere indicato “il termine entro il quale avrà inizio l’attività di liquidazione dell’attivo ed il termine del suo presumibile completamento”, che non potrà eccedere i 5 anni dal deposito della sentenza, salvi i casi di eccezionale complessità, in cui questo termine può essere differito a 7 anni dal giudice delegato.

Il procedimento per il riparto è poi disciplinato dagli artt. 220 ss. C.C.I.I., con invio telematico del progetto di ripartizione ai creditori, che hanno quindici giorni di tempo dalla comunicazione per proporre reclamo.

Le somme ricavate dalla liquidazione sono erogate ai creditori secondo l’ordine di ripartizione stabilito dall’art. 221 C.C.I.I., che riproduce l’attuale art. 111 l. fall.

La chiusura della procedura avviene, di regola, al termine del riparto finale.

L’art. 233 C.C.I.I. disciplina le ipotesi di chiusura, che sono le stesse dell’attuale art. 118 l. fall., tuttavia con la opportuna precisazione che, nei casi di chiusura di procedure relative a società di capitali per mancanza di passivo, o per integrale pagamento dei crediti, la società ritorna in bonis, e il curatore provvede a convocare l’assemblea ordinaria dei soci per le deliberazioni necessarie ai fini della ripresa dell’attività o della sua cessazione.

 

ESERCIZIO PROVVISORIO

L’art. 211 C.C.I.I. dispone che, a determinate condizioni, l’apertura della liquidazione giudiziale non determina la cessazione dell’attività d’impresa, quando “dall’interruzione può derivare un grave danno, purché la prosecuzione non arrechi pregiudizio ai creditori”.

L’esercizio provvisorio può essere disposto dal Tribunale già con la sentenza che dichiara aperta la procedura di liquidazione giudiziale, ovvero successivamente dal giudice delegato, su proposta del curatore, previo parere favorevole del comitato dei creditori (art. 211, comma 3, C.C.I.I.).

Resta ferma comunque la possibilità per il Tribunale di ordinare la cessazione dell’esercizio provvisorio in qualsiasi momento, laddove ne ravvisi l’opportunità, con decreto assunto in camera di consiglio, sentiti il curatore e il comitato dei creditori (art. 211, comma 7, C.C.I.I.).

Un’alternativa all’esercizio provvisorio, sempre al fine di conservare i beni aziendali, è data dall’affitto di azienda, che può essere autorizzato dal giudice delegato anche prima della presentazione del programma di liquidazione, su proposta del curatore, previo parere favorevole del comitato dei creditori (art. 212 C.C.I.I.).

 

OBBLIGO DI PROGRAMMAZIONE PER IL CURATORE

La nuova disciplina, ha introdotto un’importante novità anche con riferimento al ruolo del curatore, confermando la necessità di una programmazione, da parte dello stesso delle attività di liquidazione, stabilendo che, entro 60 giorni dalla redazione dell’inventario e, in ogni caso, entro 180 giorni dalla sentenza di apertura della liquidazione giudiziale, il curatore debba predisporre il programma di liquidazione, da sottoporre all’approvazione del comitato dei creditori (art. 213, comma 1, C.C.I.I.).

 

Articolo scritto da Avv. Francesca Pelli

 

Approfondimenti Marchi e brevetti

L’etichetta del vino come strumento di marketing: come registrare un marchio e proteggere il brand

Per ogni azienda vinicola l’etichetta posta su ogni bottiglia costituisce la carta di identità del vino che viene messo in commercio.

In essa l’imprenditore raccoglie tutte le informazioni sia prescritte dalla legge che in base alla libera scelta del produttore, quali ad esempio la denominazione di origine, la provenienza, l’uvaggio, la gradazione alcolica, il volume, l’annata, ecc. Tali informazioni sono strategiche e strumentali per far identificare e conoscere le caratteristiche del prodotto al consumatore.

L’etichetta, determinando il primo contatto del consumatore con il vino, non è tuttavia utilizzata dalle aziende al solo fine di informare il consumatore circa le caratteristiche tecniche di un dato prodotto, ma altresì per differenziare il proprio brand dalla concorrenza

Sotto tale aspetto, è innegabile che i consumatori acquistino prima con gli occhi fondando la loro scelta di acquisto sull’impatto visivo.

Se prendiamo a riferimento uno studio di wine.it effettuato su un campione di 2.000 bevitori di vino, l’82% afferma che la decisione di acquistare un vino piuttosto che un altro, dipende dall’etichetta.

Ed allora come può un produttore vinicolo far sì che, su uno scaffale ove sono posizionati una moltitudine di prodotti (magari con le medesime caratteristiche), la sua bottiglia di vino prodotta catturi maggiormente l’attenzione o susciti la curiosità del consumatore?

Di certo, un’azienda vinicola non può prescindere da uno studio dei segni distintivi che, congiuntamente alle altre indicazioni tipiche presenti su tutte le bottiglie di vino, possono essere posti sul’etichetta al fine di rendere il prodotto maggiormente attrattivo ed appetibile rispetto a ciò che si trova sul mercato.

I segni distintivi possono essere figure (il logo dell’azienda, un’immagine della tenuta o delle vigne, un altro simbolo che caratterizza la casa vinicola oppure un’immagine di fantasia che sia distintiva della produzione, ecc.), ovvero parole (il nome dell’azienda, il nome del vino, ecc.).

Si riporta a titolo esemplificativo l’etichetta di una nota azienda vinicola sita nel cuore della Toscana, in cui sono presenti (oltre alla provenienza, all’annata ed alla denominazione), diversi segni caratterizzanti la bottiglia di vino:

– il logo dell’azienda

– il nome del vino “AltoRe”

– il nome dell’azienda “Chioccioli”

 

 

 

 

 

Attraverso l’etichetta caratterizzata da tali segni e ponendo in primo piano lo stemma che rappresenta il logo dell’azienda ed il nome del vino, il produttore ha potuto dare un’identità al proprio vino, ed ha altresì potuto differenziare la sua bottiglia di vino da ogni altro vino I.G.T. della Toscana del 2013.

Al fine di differenziare il proprio brand e rendere la bottiglia di vino più interessante per il consumatore è di assoluta rilevanza lo studio dei segni distintivi ed, in particolare, il loro impatto visivo e la loro forza attrattiva e distintiva.

Così come di assoluta rilevanza è, conseguentemente, la protezione dei segni distintivi e la lotta ad ogni condotta di contraffazione tenuta dalle ditte concorrenti che si concretizza nell’uso dei segni distintivi identici o simili rispetto a quelli utilizzati dalla propria azienda.

Lo strumento di protezione che offre l’ordinamento nazionale è la registrazione del marchio come definito dal Codice della proprietà industriale (CPI), emanato con Decreto Legislativo 10 febbraio 2005, n. 30, quale “segno distintivo del prodotto dell’impresa”.

In forza dell’art. 7 del D.L. possono costituire oggetto di REGISTRAZIONE DEL MARCHIO tutti i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente purché siano atti a distinguere prodotti o servizi di un’impresa da quelli delle ditte concorrenti.

Un segno per poter essere registrato deve rispettare i requisiti di novità, capacità distintiva e liceità.

Un segno non può pertanto essere registrato se:

à esistono registrazioni di segni identici o simili al segno che si vuole tutelare anteriori alla nostra domanda;

à è costituito da sole denominazioni generiche (ad esempio la parola “vino”), od indicazioni descrittive (ad esempio le parole “vino bianco” e “vino rosso”);

à è contrario alla legge, al buon costume ed all’ordine pubblico, idoneo ad ingannare il pubblico, o idoneo il diritto di proprietà intellettuale altrui.

Una volta verificata la sussistenza dei menzionati presupposti sarà possibile procedere con il deposito della domanda di registrazione per i segni che si intende inserire sull’etichetta.

Il produttore può decidere di proteggere il proprio segno distintivo:

– sul territorio nazionale: in tal caso per la registrazione del marchio sarà necessario rivolgersi all’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi;

– sul territorio comunitario: in tal caso è possibile procedere, alternativamente, con la registrazione del cd. Marchio comunitario presso l’European Union Intellectual Property Office così che la protezione del segno sia estesa a tutti gli Stati facenti parte dell’Europea, ovvero con la registrazione del proprio marchio nei singoli Stati rivolgendosi all’Ufficio di volta in volta competente;

– sul territorio estero: in tal caso si può procedere con l’estensione di un marchio già registrato in Italia od in Europa presso il World Intellectual Property Organization, ovvero con l’ordinaria procedura di registrazione da effettuarsi presso l’Ufficio competente del singolo Stato.

La domanda potrà avere ad oggetto la REGISTRAZIONE DI UN MARCHIO DENOMINATIVO, ossia di una parola (nel nostro esempio, la parola “altore” e la parola “chioccioli”) o di una combinazione di parole e ciò garantisce che per la stessa categoria di prodotti non possa essere utilizzata la parola o la combinazione di parole sottoposte a tutela in ogni forma, font e dimensione.

Tale registrazione è suggerita nelle ipotesi in cui il segno composto unicamente da parole che il titolare intende utilizzare in forme e caratteri diversi. Riprendendo il nostro esempio, la parola “altore” registrata come marchio denominativo garantirebbe al produttore che essa non possa essere utilizzata come rappresentata sull’etichetta con le lettere A e R maiuscole, ma neppure in diverso carattere (ad esempio “ALTORE”, “altore”, “AlToRe”) o con diverso font rispetto a quello utilizzato (ad esempio “AltoRe”, “AltoRe”).

La domanda potrà poi avere ad oggetto la REGISTRAZIONE DI UN MARCHIO FIGURATIVO quando il segno possiede una grafica personalizzata e/o dei caratteri di fantasia e/o dei colori e/o un logo (nel nostro esempio, lo stemma rappresentato sull’etichetta dell’azienda Chioccioli).

Ciò garantisce la tutela dell’esteriorità del marchio e, dunque, di come appare al consumatore in quella specifica forma, dimensione, colore e stile, così che non potrà essere utilizzato da terzi anche se associato ad una diversa parola o frase per distinguere prodotti identici o affini a quelli del suo titolare.

Per la registrazione del marchio occorre poi individuare la classe ed i prodotti ed i servizi in ordine ai quali si procede alla registrazione del marchio, così da delineare a livello oggettivo, i confini di protezione dello stesso e l’ambito all’interno del quale il segno non potrà essere utilizzato da terzi.

Se l’azienda produce unicamente vino ed appone i propri segni solo sull’etichetta delle bottiglie di vino del materiale ad esse connesso potrà procedere con la registrazione dei servizi della classe 33 che comprendere genericamente le bevande alcoliche (eccetto le birre) ed i preparati alcolici per fare bevande; altrimenti dovranno essere individuate ed inserite nella domanda le diverse classi ed i diversi prodotti per i quali il marchio vuole essere utilizzato.

A seguito del deposito la domanda sarà pubblicata e sottoposta a controllo sia da parte dell’Ufficio competente che di terzi e, in caso di mancanza di osservazioni, sarà poi comunicata l’avvenuta registrazione del segno distintivo che – salvo ritardi dell’Ufficio – perviene al titolare nei sei mesi successivi al deposito della domanda.

La protezione del marchio (sia italiano che comunitario) si estende per dieci anni decorrenti dalla data di deposito della domanda di registrazione, data a decorrere dalla quale in virtù dell’art. 20 del CPI il titolare del marchio ha facoltà di fare un uso esclusivo ovvero di vietare a terzi l’uso o la registrazione di un marchio identico per prodotti identici o affini.

 

Articolo scritto da Avv. Benedetta Bacci

Approfondimenti Consulenza societaria - contrattualistica d'impresa

Direttiva “OMNIBUS” e indicazione annunci di riduzione del prezzo nelle vendite on line.

La Direttiva98/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio (“direttiva sull’indicazione dei prezzi”) ha come obbiettivo quello di far valutare ai consumatori e dunque raffrontare il prezzo dei prodotti sulla base di informazioni omogenee e trasparenti. Tale direttiva è stata modificata dalla direttiva(UE) 2019/2161 del parlamento europeo e del consiglio che ha introdotto norme specifiche (articolo 6 bis) per gli annunci di riduzione di prezzo cosiddetta “direttiva Omnibus”.

A differenza di altri Stati dell’Unione Europea, che hanno già portato a termine il processo di implementazione della direttiva Omnibus, in Italia l’iter di recepimento è ancora in corso. Il 26 agosto 2022 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la Legge n. 127 del 4 agosto 2022, contenente la Delega al Governo per il recepimento e l’attuazione di alcune direttive e atti normativi dell’Unione europea, tra le quali la direttiva in questione, che è entrata in vigore il 10 settembre 2022; il Governo dovrà adottare i decreti legislativi di recepimento della direttiva Omnibus entro tre mesi da tale data.

Tuttavia, il testo della Diretta Omnibus è già sufficientemente dettagliato ed una delle maggiori innovazioni è la  disposizione che introduce una disciplina specifica sugli sconti (definiti come “annunci di riduzione di un prezzo”), finora mai disciplinati in maniera adeguata a livello europeo; ebbene, per tale disposizione c’è margine di immediata applicazione, visto che gli annunci debbono indicare il prezzo precedente (applicato durante un periodo pregresso, non inferiore a 30 giorni) applicato dal professionista per un determinato periodo di tempo prima dell’applicazione dello sconto.

La direttiva Omnibus modifica la Direttiva98/6/CE aggiungendo l’articolo 6 bis:

Qualsiasi annuncio di una riduzione di prezzo deve indicare il prezzo precedentemente applicato dal commerciante per un determinato periodo prima della riduzione di prezzo.
Il prezzo precedente significa il prezzo più basso applicato dal commerciante durante un periodo non inferiore a trenta giorni prima dell’applicazione dello sconto.
Gli Stati membri possono prevedere regole diverse per le merci che possono deteriorarsi o scadere rapidamente.
Se il prodotto è sul mercato da meno di 30 giorni, gli Stati membri possono anche prevedere un periodo più breve di quello previsto al paragrafo 2.
Gli Stati membri possono prevedere che, in caso di aumento graduale della riduzione di prezzo, per prezzo precedente si intenda il prezzo senza riduzione prima della prima applicazione dello sconto.

La norma così come formulata lascia tuttavia aperte alcune questioni interpretative ed a fare chiarezza, al di là delle singole legislazioni nazionali, è intervenuta la Comunicazione della Commissione Europea “Orientamenti sull’interpretazione e l’applicazione dell’art. 6 bis della direttiva 98/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alla protezione dei consumatori in materia di indicazione dei prezzi dei prodotti offerti ai consumatori” (2021/C 526/02).d e chiarisce il significato di riduzione di prezzo e dunque dettaglia come deve essere annunciata:

– in termini percentuali (%) ad esempio sconto del 20% o assoluti, ad esempio sconto di 10 euro;

– indicando un nuovo prezzo inferiore assieme al prezzo indicato in precedenza (più elevato). Esempio: “ora 50 euro” – “in precedenza 100 euro”; oppure 50 euro /100 euro; –

-mediante tecniche promozionali     ad esempio “acquista oggi e non paghi IVA”;

– presentando il prezzo attuale come prezzo di lancio o simile ed indicando un prezzo più elevato quale prezzo normale applicato in futuro.

La comunicazione chiarisce che l’art. 6 bis, da un lato si applica indipendentemente dal fatto che l’annuncio di una riduzione di prezzo indichi una riduzione misurabile o meno. Ad esempio, anche gli annunci quali saldi, offerte speciali, o offerte Black Friday che creano l’impressione di una riduzione di prezzo sono soggetti all’articolo 6 bis e dall’altro, che l’articolo non si applica agli annunci pubblicitari di carattere generale che promuovono l’offerta del venditore confrontandola con quelle di altri venditori senza evocare o creare l’impressione di una riduzione di prezzo, così come non si applica nemmeno ad altre tecniche di promozione di vantaggi di prezzo, quali i confronti tra prezzi o le offerte vincolate.

In merito all’indicazione del prezzo precedente, deve essere precisato che la direttiva sebbene faccia rinvio anche alle singole norme nazionali prevede che gli Stati membri non possono prevedere un periodo inferiore a 30 giorni per la determinazione del prezzo precedente. Lo scopo di tale periodo di riferimento è evitare che i professionisti alterino i prezzi e ne presentino riduzioni fasulle, ad esempio aumentando il prezzo per un breve periodo e poi applicando la riduzione che induce i consumatori in errore.

Relativamente alle riduzioni di prezzo graduali, i singoli Paesi possono decidere nelle proprie norme di recepimento diverse modalità applicative, tuttavia la direttiva riconosce espressamente che in caso di aumento graduale della riduzione, come potremo definire il periodo dei saldi, si possa far riferimento esclusivamente al prezzo precedente individuato nel prezzo più basso applicato nei trenta giorni antecedenti la prima riduzione.

A tal proposito una riflessione deve essere fatta sul prezzo iniziale che deve essere indicato in caso di due campagne successive ma separate nell’arco di un periodo temporale inferiore ai 30 giorni.

Il professionista che annuncia la riduzione di prezzo deve indicare il prezzo più basso che ha applicato per il bene o i beni interessati almeno negli ultimi trenta giorni precedenti la riduzione (“prezzo precedente”). Questo prezzo più basso indicato include qualsiasi precedente prezzo ridotto durante questo periodo.

Pertanto la riduzione del prezzo deve essere presentata utilizzando il prezzo “precedente” indicato come riferimento, ovvero l’eventuale riduzione indicata in percentuale deve essere basta sul prezzo “precedente”. Ad esempio quando l’annuncio è uno sconto del 50% e il prezzo più basso degli ultimi trenta giorni è 100 euro, il venditore dovrà indicare 100 euro come prezzo precedente da cui calcolare la riduzione del 50% anche se il prezzo di listino era 160 euro.

In sostanza il prezzo indicato deve essere quello “precedente” (il più basso applicato nei trenta giorni antecedenti alla riduzione) all’inizio di ogni riduzione e può essere mantenuto per tutta la riduzione. La riduzione può essere pubblicizzata anche per un periodo più lungo di trenta giorni e se è ininterrotta, il prezzo “precedente” che deve essere indicato resta il prezzo più basso applicato almeno nei trenta giorni precedenti la riduzione.

Infine, con riferimento alla fattispecie dei Saldi privati, il testo della direttiva non prevede una disciplina specifica e la Comunicazione della Commissione Europea è intervenuta sull’argomento chiarendo alcuni aspetti.

Anzitutto, l’articolo 6 bis della direttiva sull’indicazione dei prezzi non si applica ai programmi di fedeltà dei clienti messi in atto dal venditore, quali buoni o carte di sconto, che permettono al consumatore di usufruire di uno sconto sul prezzo di tutti i prodotti o su specifiche gamme di prodotti del venditore per periodi di tempo continui e prolungati (ad esempio sei mesi o un anno), o grazie ai quali è possibile accumulare crediti (punti) in vista di acquisti futuri. L’articolo 6 bis della direttiva in questione non si applica nemmeno alle riduzioni dei prezzi personalizzate, che non prevedono l’annuncio della riduzione di prezzo.

Per contro, si applicherà alle riduzioni di prezzo che, seppure presentate come “personalizzate”, sono in realtà offerte/annunciate ai consumatori in generale. Una situazione di questo tipo potrebbe verificarsi qualora il professionista renda disponibili dei «buoni» o codici di sconto a potenzialmente tutti i consumatori che ne visitano il negozio fisico od online durante periodi specifici. Tra gli esempi figurano campagne quali:


“oggi sconto del 20 % usando il codice XYZ”; o

“questo fine settimana sconto del 20 % su tutti gli articoli solo per gli iscritti al programma di fedeltà”,

in cui il codice/programma di fedeltà è accessibile/utilizzato da molti clienti o dalla maggior parte di essi.

In questi casi il professionista deve rispettare gli obblighi di cui all’articolo 6 bis, ossia garantire che il prezzo «precedente» di tutti i beni interessati sia il prezzo più basso pubblicamente disponibile praticato negli ultimi 30 giorni.

In conclusione, si evidenzia che il mancato rispetto di quanto previsto dalla direttiva Omnibus introduce sanzioni che possono arrivare fino al 4% del fatturato annuo della società nello Stato membro (o negli Stati Membri interessati) in cui si è verificata la violazione, o di 2 milioni di euro nei casi in cui non siano disponibili informazioni sul fatturato. Inoltre, gli Stati Membri possono prevedere e introdurre sanzioni più elevate rispetto a quelle indicate nella Direttiva.

 

 

 

Approfondimenti

Fake news, quando si integra un reato?

Alzi la mano chi non si è mai imbattuto in una fake news.

Nell’epoca di internet, dei giornali on line, dei blog, dei social è praticamente impossibile non aver mai trovato – e magari creduto – ad una fake news. Poco importa se si tratta di notizie divertenti, magari riguardanti qualche strana specie animale o tradizione popolare, ma in alcuni casi le notizie false, esagerate, sbagliate o distorte possono avere una rilevanza tale da costituire un vero e proprio reato.

In base all’interpretazione giurisprudenziale, è falsa “la notizia completamente difforme dal vero, priva di fondamento”; è esagerata “la notizia che, pur basandosi su un fondamento di verità risulta amplificata, ingrandita e iperbolica”; è tendenziosa “la notizia che, pur riferendo cose vere, viene presentata in modo da ingenerare in chi la apprende una rappresentazione deformata della realtà”.

In presenza di simili caratteristiche, la notizia potrebbe avere una rilevanza penale e il suo autore (o colui che semplicemente ha contribuito alla sua diffusione) potrebbe incorrere in una sanzione addirittura penale.

I reati che possono essere integrati diffondendo una fake news sono molteplici:

In tempo di guerra, la diffusione di notizie false è punita dall’art. 265 c.p., che disciplina il Disfattismo politico, che punisce chiunque diffonda o comunichi voci o notizie false, esagerate o tendenziose, che possano destare pubblico allarme o deprimere lo spirito pubblico o altrimenti menomare la resistenza della nazione di fronte al nemico.

Anche in tempo di pace le notizie false possono costituire reato, ove vadano a ledere l’ordine pubblico e la tranquillità sociale. Basti pensare al delitto di aggiotaggio che punisce chiunque diffonde notizie false concretamente idonee ad alterare il mercato; al reato di pubblicazione di notizie false, esagerate o tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico, che sanziona chi pubblica o diffonde una notizia falsa, esagerata o tendenziosa idonea a turbare l’ordine pubblico; al reato di procurato allarme presso l’Autorità, per tutti coloro i quali annunciando disastri, infortuni o pericoli inesistenti, suscitando allarme presso l’Autorità o esercenti di pubblico servizio; o ancora al reato di abuso della credulità popolare, che punisce chiunque pubblicamente cerca di abusare della credulità popolare, ove dal predetto fatto possa derivare un turbamento dell’ordine pubblico.

Infine, evidente è il legame con la diffamazione, ove la notizia falsa su una o più determinate persone sia potenzialmente idonea a offenderne la reputazione determinando il discredito e la lesione dell’onore di essa o di esse all’interno della cerchia sociale, dell’ambiente lavorativo, familiare. Quando poi la notizia viene diffusa mediante internet la diffamazione si manifesta nella sua forma aggravata.

A tal proposito, peraltro, come ha chiarito da sempre la giurisprudenza, “…non è necessario che la persona cui l’offesa è diretta sia nominativamente designata, essendo sufficiente che essa sia indicata in modo tale da poter essere individuata in maniera inequivoca…”. Questo principio appare particolarmente rilevante in materia di fake news diffuse a mezzo social. Ciò in quanto, molto spesso, coloro che diffondono tali notizie, insultano o diffamano chi si oppone alle loro teorie, ma sono convinti di non incorrere nel delitto in esame non nominando espressamente le persone, ma sostituendo i nomi con nomignoli o appellativi di vario genere che in realtà non schermano l’identità del destinatario delle offese che rimane sempre facilmente individuabile da coloro che leggono la notizia.

Altrettanto evidente è il rapporto problematico con la libera manifestazione del pensiero, diritto tutelato costituzionalmente dall’art. 21 della Costituzione. Ciò che, però, tutti non sanno è che la stessa Costituzione pone dei limiti al suddetto diritto in alcune e specifiche circostanze. Una di queste è senz’altro la lotta alle c.d. fake news, ossia la pubblicazione di notizie false o esagerate con foto e titoli sensazionalistici per attirare “clic” sulle proprie pagine o blog e – sempre più spesso – guadagnare in base al numero delle visualizzazioni.

Ed allora, colui che pubblica una notizia deve verificare la corrispondenza rigorosa dei fatti accaduti con quelli narrati (principio della verità), l’esistenza di un interesse dell’opinione pubblica alla conoscenza dei fatti narrati (principio della pertinenza) e deve esprimere il proprio pensiero in modo corretto e composto, evitando aggressioni gratuite all’altrui reputazione (principio della continenza).

In presenza di queste caratteristiche, il reato di diffamazione non viene integrato in quanto scriminato dall’esercizio del diritto di cronaca, di critica e di satira.

Tra i tre principi enucleati dalla giurisprudenza il principio della verità della notizia è quello che maggiormente si presenta di immediato interesse per la tematica delle fake news, in quanto appare del tutto evidente che le notizie false, violando tale principio, non potranno mai essere scriminate sulla base del diritto di cronaca. Tuttavia, il problema non è di così facile soluzione perché che vi sono vari livelli e modi di falsificazione e/o manipolazione della realtà e, in materia di fake news, soprattutto quando esse si innestano in una più ampia narrazione complottistica, si cerca di affermare che “è proprio la fake news ad essere la verità”.

Occorre pertanto prestare molta attenzione al contenuto delle notizie che vengono pubblicate, facendo ricorso non soltanto a verifiche sulla fonte e/o sul contenuto stesso della notizia, ma anche a consulenti che possano accompagnare verso una pubblicazione consapevole.

Approfondimenti Consulenza societaria - contrattualistica d'impresa

“Women on Boards”: approvata la direttiva che stabilisce le quote rosa nei Cda delle società quotate europee

Dopo 10 anni di attesa è stato raggiunto l’accordo definitivo tra Commissione, Consiglio e Parlamento Europeo per trasformare in legge la direttiva “Women on Boards” che mira a introdurre procedure di assunzione trasparenti nelle aziende dell’Unione Europa, così da permettere che almeno il 40% dei posti ai vertici esecutivi siano occupati da donne.

Entro il 30 giugno 2026, nelle società quotate in borsa dell’Unione Europea, almeno il 40% degli incarichi da amministratori non esecutivi o il 30% di tutti incarichi da amministratori dovranno essere ricoperti da donne. Nei casi in cui i candidati presentino pari qualifiche per una posizione la priorità dovrà andare al candidato appartenente al genere meno presente.

La Commissione europea ha presentato per la prima volta la sua proposta nel 2012 e il Parlamento europeo ha adottato la sua posizione negoziale nel 2013, per poi mantenere una situazione di stallo per quasi 10 anni. Ad oggi, solo il 30,6% dei membri del consiglio di amministrazione delle più grandi società quotate in borsa dell’Ue sono donne, con differenze significative tra gli Stati membri che vanno dal 45,3% in Francia al 8,5% a Cipro.

Vediamo nel dettaglio cosa prevede la direttiva.

 

OGGETTO:

La direttiva mira a raggiungere una rappresentanza più equilibrata di uomini e donne all’interno degli organi amministrativi di società quotate stabilendo misure efficaci per realizzare tale equilibrio.

Le società quotate dovranno raggiungere entro il 30 giugno 2026 uno dei seguenti OBIETTIVI: 40% degli incarichi da amministratori non esecutivi o il 30% di tutti incarichi da amministratori dovranno essere ricoperti dal candidato del sesso sottorappresentato.

 

MEZZI PER RAGGIUNGERE GLI OBIETTIVI:

Le società quotate dovranno adeguare il processo di selezione dei candidati per la nomina di amministratore. La selezione dovrà seguire i seguenti criteri:

analisi comparativa del titolo di studi di ciascun candidato
modalità di presentazione delle domande non discriminatorie
predisposizione di avvisi di posto vacante
processo di preselezione
indicazioni chiara dei criteri di selezione

Nella scelta di candidati in situazione di pari di idoneità, competenza e professionalità, dovrà essere data la priorità al candidato del sesso sottorappresentato, salvo casi eccezionali.

Gli Stati Membri dovranno adottare misure necessarie affinché, nel caso in cui un candidato non selezionato contesti la violazione degli obblighi da parte della società quotata, quest’ultima abbia l’onere di provare dinanzi alle Autorità competenti che non vi è stata alcuna violazione.

 

OBBLIGHI DI TRASPARENZA:

Le società quotate saranno tenute a fornire annualmente alle Autorità competenti informazioni sulla rappresentanza di genere all’interno degli organi amministrativi, con specifica distinzione fra amministratori esecutivi e non esecutivi e con indicazione delle misure adottate per il raggiungimento degli obiettivi prescritti dalla direttiva. Le società saranno altresì tenute a pubblicare tali informazioni all’interno dei propri siti web.

Gli Stati Membri dovranno pubblicare ed aggiornare periodicamente un elenco delle società quotate che hanno raggiunto uno degli obiettivi.

 

CONTROLLO – SANZIONI:

Gli Stati Membri dovranno designare uno o più organismi competenti per l’analisi, il monitoraggio e la promozione dell’equilibrio di genere nei consigli di amministrazione delle società quotate.

Sarà inoltre rimesso agli Stati Membri il compito di stabilire, in base alla normativa nazionale, le sanzioni applicabili in caso di violazione degli obblighi posti dalla direttiva che potranno essere di natura pecuniaria o potranno comportare la nullità della nomina del candidato eseguita in violazione delle norme sopra citate.

Le sanzioni devono in ogni caso essere effettive, proporzionate e dissuasive.

 

LEGGE APPLICABILE:

Per l’applicazione della direttiva sarà competente lo Stato Membro in cui la società quotata ha la sede legale e sarà applicabile la legge di tale Stato Membro.

 

ESCLUSIONE:

La direttiva non si applica alle piccole e medie imprese (PMI).

 

REVISIONE:

Entro un anno dall’applicazione della direttiva gli Stati membri dovranno predisporre una relazione sull’attuazione della stessa avendo cura di indicare le misure adottate per il raggiungimento degli obiettivi, sanzioni applicate, progressi fatti verso una rappresentanza più equilibrata fra uomo e donna.

 

ENTRATA IN VIGORE:

La direttiva entra in vigore il ventesimo giorno successivo alla data di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea.

Approfondimenti

Revisione dei prezzi negli appalti pubblici: atto dovuto.

È ormai di pubblico dominio la circostanza che l’attuale situazione mondiale che sta comportando un aumento dei prezzi di varie materie prime che indubbiamente vanno ad incidere sul costo di esecuzione di appalti pubblici di lavori, servizi e forniture.

È pertanto oggetto di valutazione, sia da parte degli operatori economici, sia da parte delle stazioni appaltanti, se ed in quali termini siano ammissibili richieste di rinegoziazione contrattuale.

In via generale, l’art. 106 del codice dei contratti pubblici prevede l’immodificabilità dei prezzi, salvo espressa previsione, da parte della stazione appaltante, negli atti di gara.

Al fine di ovviare alla problematica relativa all’impossibilità di revisionare i prezzi, il legislatore è più volte intervenuto nel primo semestre 2022 per risolvere la problematica.

In primo luogo: secondo il d.l. 27 gennaio 2022, n. 4 recante “Misure urgenti in materia di sostegno alle imprese e agli operatori economici, di lavoro, salute e servizi territoriali, connesse all’emergenza da COVID-19, nonché per il contenimento degli effetti degli aumenti dei prezzi nel settore elettrico”, fino al 31/12/2023, trova applicazione la revisione dei prezzi prevista all’art. 29 comma 1 lettera a).

Aggiunge, inoltre, l’art. 29, che per i contratti relativi ai lavori,  in  deroga  all’articolo 106, comma 1, lettera a), quarto periodo, del decreto legislativo  50 del 2016,  le  variazioni  di  prezzo  dei  singoli  materiali  da costruzione,  in  aumento  o  in  diminuzione,  sono  valutate  dalla stazione appaltante soltanto se tali variazioni  risultano  superiori al cinque  per  cento  rispetto  al  prezzo,  rilevato  nell’anno  di presentazione dell’offerta, anche tenendo conto  di  quanto  previsto dal decreto del Ministero  delle  infrastrutture  e  della  mobilità sostenibili di cui al comma  2,  secondo  periodo.

Questa misura, tuttavia, non si è rivelata sufficiente a coprire l’aumento dei costi subiti dagli operatori economici per eseguire correttamente i contratti di appalto, soprattutto per quanto concerne gli appalti pubblicati prima dell’intervento del d.l. 4/2022, non rientranti nell’applicazione della norma e aggiudicati a prezzi attualmente insostenibili.

Anche l’Autorità Nazionale Anticorruzione (delibera n. 227 dell’11 maggio 2022) ha rilevato che in ragione degli eventi che hanno contraddistinto l’andamento economico degli ultimi due anni, è ammessa la possibilità per le Stazioni Appaltanti di disporre la sospensione del contratto per il tempo strettamente necessario, nel rispetto delle indicazioni riportate nell’articolo 107 del codice dei contratti pubblici oppure di rinegoziare i termini concordati per l’adempimento.

In questo quadro critico, è intervenuto l’art. 26 del 50/2020, comunemente conosciuto come decreto aiuti.

La norma, come noto, ha la finalità di fronteggiare il rincaro eccezionale non solo dei materiali da costruzione ma anche dei carburanti e dei prodotti energetici riferita a contratti affidati sulla base delle offerte presentate entro il 31.12.2021.

Va evidenziato prima di tutto che la norma riguarda soltanto gli appalti di lavori, e non anche gli affidamenti di servizi e forniture.

L’art. 26 comma 1 del decreto aiuti prevede che gli Stati di Avanzamento dei Lavori (SAL) relativi alle lavorazioni contabilizzate tra il 1 gennaio 2022 e il 31 dicembre 2022 sono adottati, in deroga alle disposizioni contrattuali, applicando i prezziari aggiornati al 31.7.2022 o, in mancanza, applicando un incremento fino al 20% dei prezziari aggiornati al 31 dicembre 2021 e in uso.

La committente è tenuta a riconoscere tali maggiori importi nella misura del 90%.

Per i SAL relativi alle lavorazioni contabilizzate o allibrate tra il 1 gennaio 2022 e 18 maggio 2022 già adottati e per i quali sia già intervenuto un certificato di pagamento, è emesso un certificato di pagamento straordinario che contiene la determinazione dei maggiori oneri spettanti all’appaltatore, determinati applicando i prezziari aggiornati al 31 luglio 2022 o, in mancanza, applicando un incremento fino al 20% dei prezziari aggiornati al 31 dicembre 2021 e in uso. In questo caso, il certificato di pagamento straordinario deve essere adottato entro 30 giorni dall’entrata in vigore del decreto aiuti.

In entrambi i casi, i pagamenti sono effettuati al netto di eventuali compensazioni ottenute dall’appaltatore tramite l’attivazione di clausole revisione prezzi contenute nei contratti. Quanto al termine, i pagamenti devono essere effettuati entro 30 giorni dall’adozione di ogni SAL.

È essenziale evidenziare che il comma 2 dispone che i prezziari regionali in uso per il 2022 devono essere aggiornati entro il 31 luglio 2022.

Le regole per la redazione dei prezziari sono contenute nelle Linee Guida del MIMS che, in attuazione dell’art. 29, comma 12 del d.l. 4/2022 (l. 25/2022), dovrebbero (il condizionale è d’obbligo) essere adottate a breve.

Come previsto anche dall’art. 23 del Codice, qualora le regioni non provvedano nei tempi indicati, spetta alle diramazioni territoriali del MIMS procedere alla redazione dei prezziari, ma entro 15 giorni, e non 30, come previsto dal Codice.

I prezziari aggiornati entro il 31 luglio 2022 cessano di avere efficacia il 31 dicembre 2022 e possono essere utilizzati fino al 31 marzo 2023 unicamente per i progetti che verranno approvati entro tale data.

Nelle more della determinazione dei prezziari, il comma 3 dell’art. 26 prevede che ai fini delle determinazioni del costo dei prodotti, delle attrezzature e delle lavorazioni, le committenti incrementano fino al 20% le risultanze dei prezziari in uso e aggiornati al 2021.

In sostanza, anche prima dell’aggiornamento dei prezzari, la Stazione Appaltante è tenuta a corrispondere un incremento fino al 20%, proprio al fine di evitare che l’attuale condizione economica possa aggravarsi ulteriormente.

Nonostante l’entrata in vigore di tali disposizioni, già di per sè complesse, resta poca chiarezza sul tema della revisione dei prezzi nell’ambito degli appalti di servizi e forniture.

Firenze Legale monitorerà l’emanazione dei provvedimenti normativi, anche in ambito regionale e resta a disposizione in caso di necessità di approfondimenti.

Approfondimenti

Strumenti di retention dei dipendenti strategici: come evitare le dimissioni?

Una delle caratteristiche peculiari del contratto di lavoro è costituita dal fatto che mentre il datore di lavoro per poter recedere dal rapporto deve necessariamente avere una giusta causa o un giustificato motivo oggettivo o soggettivo, il lavoratore è sempre libero di rassegnare le proprie dimissioni volontarie, interrompendo in qualunque momento il rapporto contrattuale, salvo il rispetto del periodo di preavviso previsto dal CCNL applicato.

Tale dogma consolidatosi a tutela della libertà del lavoratore e finalizzato ad evitare possibili arbitri della parte datoriale, negli ultimi anni è divenuto un tema molto sentito dalle aziende.

Si sta, infatti, assistendo al fenomeno della c.d. “Great Resignation” ovvero ad un sensibile incremento, registrato a livello statistico su base nazionale, delle dimissioni dei dipendenti strategici in numerosi comparti del mercato del lavoro, rendendosi sempre più necessario per le aziende investire in politiche di fidelizzazione delle risorse umane.

Il turnover del personale, soprattutto ove altamente qualificato o rispetto al quale l’azienda ha investito risorse ed energie nella formazione specifica è, infatti, un ostacolo alla produttività aziendale, provocando una dispersione di know how, che spesso va a favorire i diretti competitor.

Per evitare che questo accada è possibile utilizzare degli strumenti giuridici, denominati patti di retention che vanno ad integrare il contratto di lavoro, derogando alle regole generali del rapporto e finalizzati proprio a disincentivare le dimissioni dei dipendenti ed ottenere una maggiore stabilità del personale.

Vediamone alcuni esempi.

PATTO DI STABILITA’

Uno dei primi strumenti che possono essere utilizzati per stabilizzare il rapporto di lavoro consiste nella previsione di un patto di stabilità, ovvero di una clausola contrattuale con la quale viene garantita una durata minima del rapporto, durante il quale il lavoratore non può dimettersi volontariamente dal rapporto di lavoro.

Essa, evidentemente, viene prevista quando, ad esempio la formazione del dipendente rappresenta un investimento notevole per il datore di lavoro oppure quando è necessario tutelare la presenza in azienda di professionalità specializzate, strategiche o di difficile reperimento sul mercato.

Tale clausola costituisce una limitazione della libertà contrattuale e non è disciplinata da alcuna normativa ad hoc, tuttavia, in presenza di determinate condizioni viene pacificamente riconosciuta come legittima dalla giurisprudenza.

Si afferma infatti che il lavoratore subordinato è libero di disporre della propria facoltà di recesso dal rapporto; la clausola con cui si prevedano limiti all’esercizio di detta facoltà non contrasta con alcuna norma o principio dell’ordinamento giuridico e può pertanto essere posto a carico del lavoratore un obbligo risarcitorio o il pagamento di una penale, in caso di dimissioni anticipate del lavoratore rispetto al periodo di durata minima stabilito.

La medesima clausola, peraltro,  per la giurisprudenza maggioritaria, non rientra neppure in alcuna delle ipotesi di cui al secondo comma dell’art. 1341 cod. civ., per le quali è richiesta l’approvazione specifica per iscritto.

Trattandosi di un’importante limitazione all’autonomia contrattuale, ai fini della sua validità sono tuttavia richiesti alcuni requisiti:

Forma scritta: trattandosi di una deroga alla disciplina generale del contratto di lavoro deve necessariamente essere provata per scritto;
Determinatezza della durata: non è possibile prevedere patti di stabilità a tempo indeterminato, deve pertanto essere espressamente previsto la durata dell’obbligo;
Onerosità: a fronte del sacrificio richiesto al lavoratore deve necessariamente essere previsto un corrispettivo; la corrispettività, tuttavia, non va valutata atomisticamente, come contropartita dell’assunzione dell’obbligazione, bensì alla luce del complesso delle reciproche pattuizioni contrattuali, potendo consistere anche nella reciprocità dell’impegno di stabilità ovvero in una diversa prestazione a carico del datore di lavoro, quale una maggiorazione della retribuzione o una obbligazione non monetaria, purché non simbolica e proporzionata al sacrificio assunto dal lavoratore ( n. 14457/2017).

PROLUNGAMENTO DEL PERIODO DI PREAVVISO

Un’altra forma di tutela aziendale è rappresentata dal patto di prolungamento del periodo di preavviso, in caso di dimissioni da parte del lavoratore.

Diversamente dal precedente in questo caso la deroga alla disciplina generale incide sul momento patologico del rapporto, ovvero dopo che il lavoratore ha rassegnato le proprie dimissioni, andando a prolungare il termine di preavviso previsto dal CCNL applicato.

Tale clausola ha comunque una buona efficacia deterrente, in quanto proporsi ad un’azienda per una nuova occupazione indicando che la propria disponibilità è differita allo scadere di un tempo di preavviso prolungato, può non essere molto accattivante, non avendo, spesso, le aziende la possibilità o comunque l’interesse verso risorse non immediatamente disponibili.

L’efficacia deterrente può essere, inoltre, ulteriormente rinforzata mediante la previsione di una penale a carico del lavoratore, in caso di inadempimento.

Anche tale accordo per essere valido deve essere scritto ed a titolo oneroso e il pagamento non deve essere simbolico, ma adeguato al sacrificio imposto al lavoratore.

PATTO DI NON CONCORRENZA

Il patto di non concorrenza, ovvero il patto con il quale il lavoratore  si impegna a non svolgere attività lavorativa in favore di imprese concorrenti dopo la cessazione del rapporto di lavoro, assolve principalmente una funzione di protezione,  ovvero  evitare che il dipendente, mediante il know how acquisito alle dipendenze dell’azienda possa svolgere atti di concorrenza in via diretta o favorendo un diretto competitor.

Tuttavia, come il precedente, anche la previsione di un patto di non concorrenza nei confronti di dipendenti maggiormente strategici e qualificati può avere un importante forza deterrente delle dimissioni, impedendo ai lavoratori sottoposti a tale impegno di proporsi o comunque di accettare posizioni lavorative relative al medesimo settore di provenienza, che costituisce notoriamente, il più semplice, oltre che pericoloso per le aziende, rischio di attrazione e sottrazione delle risorse.

I requisiti di validità del patto di non concorrenza, sono disciplinati dall’art. 2125 c.c. e sono molto stringenti:

Forma scritta: solitamente viene previsto unitamente alla lettera di assunzione, ma può essere previsto anche successivamente all’assunzione ed in via autonoma;
Oggetto determinato: devono essere determinate la tipologia delle attività/mansioni del dipendente, nonché delle aziende rientranti nell’oggetto della limitazione;
Durata: non superiore a 3 anni per i dipendenti e 5 anni per i dirigenti
Limitazione territoriale: indicazione delle aree geografiche di operatività del patto
Corrispettivo: il corrispettivo deve necessariamente essere previsto ed in misura congruo  in relazione al sacrificio richiesto a quest’ultimo. La somma dovuta lavoratore può essere stabilita come quota fissa o come percentuale della retribuzione, purchè l’importo corrisposto al lavoratore sia determinato o almeno determinabile, non potendo dipendere la determinazione del corrispettivo dalla sola durata del rapporto (elemento sottratto alla disponibilità del lavoratore).

PIANI di INCENTIVAZIONE E FRINGE BENEFIT

In ultimo, ma non certo per ordine di importanza, per garantire una buona fidelizzazione del personale è utile, se non indispensabile, garantire la soddisfazione del lavoratore durante il corso del rapporto lavorativo.

I piani di incentivazione legati a riconoscimenti di premi di risultato da erogarsi in retribuzione e/o mediante benefit in natura sono sicuramente  strumenti utile a perseguire la finalità di retention, avendo un forte impatto sulla motivazione dei dipendenti.

La previsione di un sistema remunerativo variabile, in parte connesso ai risultati raggiunti, deve essere tuttavia, caratterizzato da un’attenta regolamentazione, con fissazione di obiettivi ben definiti per scritto e condivisi tra le parti, misurabili oggettivamente e raggiungibili secondo un criterio di normale prevedibilità.

Altre modalità per riconoscere la qualità del lavoro svolto, sono l’attribuzione di benefit mediante piani di welfare aziendale. Questi rappresentano incentivi non monetari capaci di rispondere ai bisogni dei dipendenti in ambito lavorativo (auto aziendale, computer portatile, smartphone aziendali ecc.) e privato (convenzioni sanitarie, asili, palestre ecc.).

Si tratta di modalità utilizzate proprie per valorizzare l’operato dei singoli in azienda con interventi concreti e garantire una maggiore fidelizzazione appartenenza all’azienda.