Autore: Avv. Silvia Papalini
È possibile controllare un dipendente tramite un investigatore privato?
PREMESSA
Il tema della possibilità per il datore di lavoro di richiedere l’intervento di un’agenzia investigativa per “controllare” un dipendente è assai delicato, andando a coinvolgere due contrapposti interessi, da un lato la riservatezza personale dei lavoratori, dall’altro l’interesse economico dell’azienda a fronte di possibili illeciti del proprio sottoposto.
Va tuttavia fin da subito precisato che né lo Statuto dei lavoratori, né altre norme di legge precludono in via assoluta al datore di lavoro di ricorrere ad agenzie investigative per controllare i dipendenti, e la giurisprudenza di legittimità ammette pacificamente l’utilizzabilità delle risultanze investigative ai fini disciplinari e quindi, anche per provare la giusta causa di un licenziamento.
Ricorrere a tali modalità di indagine si ritiene generalmente giustificato non solo per dimostrare l’avvenuta perpetrazione degli illeciti e l’esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o dell’ipotesi che tali illeciti siano in corso di esecuzione.
LIMITI
Ciò premesso, va tuttavia rilevato che tale tipologia di controlli per essere validi, non possono in nessun caso consistere nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria.
L’attività investigativa disposta dal datore deve, dunque, avere ad oggetto l’accertamento di condotte illecite diverse dal solo adempimento della prestazione lavorativa.
Lo Statuto dei Lavoratori, infatti, riserva quest’ultimo tipo di controllo proprio al datore di lavoro e alla propria organizzazione gerarchica e non consente che venga affidato a soggetti terzi alla struttura aziendale.
Deve trattarsi, in altre parole, di controlli finalizzati ad accertare l’esistenza di fatti illeciti, anche penalmente rilevanti, che possono avere una rilevanza indiretta nel rapporto lavorativo, incidendo nella valutazione dell’aspetto fiduciario, ovvero del rispetto degli obblighi di lealtà, fedeltà e correttezza da parte del lavoratore.
Per spiegarci meglio vediamo alcuni casi pratici analizzati da alcune sentenze della Corte di Cassazione.
CASI PRATICI
ABUSO DEI PERMESSI EX L. 104/1992
È legittimo il controllo demandato dal datore di lavoro ad un’agenzia investigativa, finalizzato all’accertamento dell’utilizzo improprio dei permessi ex art. 33 della L. 5 febbraio 1992 n. 104 (comportamento suscettibile di rilevanza anche penale).
Tale controllo, infatti, non riguarda l’adempimento della prestazione lavorativa, essendo effettuato al di fuori dell’orario di lavoro ed in fase di sospensione dell’obbligazione principale di rendere la prestazione lavorativa, sicché esso non può ritenersi precluso.
ALLONTANAMENTO NON AUTORIZZATO DAL LUOGO DI LAVORO
Al contrario, non è considerato legittimo l’utilizzo delle risultanze investigative da parte del datore di lavoro privato finalizzate ad accertare che il lavoratore durante l’orario di lavoro sia solito allontanarsi dal posto di lavoro senza autorizzazione, per occuparsi di attività personali esterne alla sede di lavoro ed estranee alle proprie mansioni.
La Cassazione ha recentemente stabilito che tali tipo di controlli sono inammissibili in quanto rientranti nel controllo della prestazione lavorativa vietati dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori e dei doveri di buona fede e correttezza.
Le risultanze non possono quindi essere utilizzate per finalità disciplinari neppure se raccolte, indirettamente, durante un controllo investigativo legittimamente disposto nei confronti di un altro dipendente.
SIMULAZIONE MALATTIA
È, invece, pacificamente ritenuto legittimo il controllo investigativo finalizzato ad accertare fatti idonei a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a determinare uno stato di incapacità lavorativa rilevante e, quindi, a giustificarne l’assenza del lavoratore. Rispetto a tale specifico aspetto la giurisprudenza ha ritenuto che in tema di licenziamento per giusta causa, la disposizione di cui all’art. 5 St. lav. che vieta al datore di svolgere accertamenti sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente o lo autorizza ad effettuare il controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, non preclude al datore medesimo di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a determinare uno stato di incapacità lavorativa rilevante e, quindi, a giustificarne l’assenza.
ABUSO DEI CONGEDI PARENTALI
È legittimo, inoltre, il controllo tramite agenzia finalizzato ad accertare l’abuso da parte del lavoratore del diritto potestativo di congedo parentale. In tali casi, però affinché il licenziamento sia legittimo occorre accertare che il diritto venga esercitato per la maggior parte del tempo, non per la cura diretta del bambino, bensì per attendere ad altra attività, come esercitare un altro impiego di lavoro o per attività del tutto estranei alla tutela e assistenza del minore.
CONCORRENZA SLEALE
Sono stati, in alcuni casi, ritenuti legittimi i controlli mirati all’accertamento della violazione del divieto di concorrenza del dipendente in corso di rapporto (tra cui si segnala il caso dell’estetista che nel giorno di riposo esercitava l’attività in proprio presso il suo domicilio), perché non riguarda lo svolgimento del lavoro, ma un illecito commesso fuori dell’orario di servizio e comunque passibile di conseguenze dannose per l’azienda.
CONCLUSIONI
Prima di ricorrere all’utilizzo di un’agenzia investigativa occorre valutare attentamente la finalità della richiesta, tenendo presente che i relativi risultati, seppur comprovanti un comportamento inadempiente del lavoratore, non sempre possono essere validamente utilizzati per fondare un procedimento disciplinare per licenziamento, a prescindere dalla gravità della condotta accertata.
È sempre opportuno, dunque, affidarsi ad un consulente esperto per un’attenta valutazione preliminare della problematica emersa e dell’esigenza dell’azienda.
Strumenti di retention dei dipendenti strategici: come evitare le dimissioni?
Una delle caratteristiche peculiari del contratto di lavoro è costituita dal fatto che mentre il datore di lavoro per poter recedere dal rapporto deve necessariamente avere una giusta causa o un giustificato motivo oggettivo o soggettivo, il lavoratore è sempre libero di rassegnare le proprie dimissioni volontarie, interrompendo in qualunque momento il rapporto contrattuale, salvo il rispetto del periodo di preavviso previsto dal CCNL applicato.
Tale dogma consolidatosi a tutela della libertà del lavoratore e finalizzato ad evitare possibili arbitri della parte datoriale, negli ultimi anni è divenuto un tema molto sentito dalle aziende.
Si sta, infatti, assistendo al fenomeno della c.d. “Great Resignation” ovvero ad un sensibile incremento, registrato a livello statistico su base nazionale, delle dimissioni dei dipendenti strategici in numerosi comparti del mercato del lavoro, rendendosi sempre più necessario per le aziende investire in politiche di fidelizzazione delle risorse umane.
Il turnover del personale, soprattutto ove altamente qualificato o rispetto al quale l’azienda ha investito risorse ed energie nella formazione specifica è, infatti, un ostacolo alla produttività aziendale, provocando una dispersione di know how, che spesso va a favorire i diretti competitor.
Per evitare che questo accada è possibile utilizzare degli strumenti giuridici, denominati patti di retention che vanno ad integrare il contratto di lavoro, derogando alle regole generali del rapporto e finalizzati proprio a disincentivare le dimissioni dei dipendenti ed ottenere una maggiore stabilità del personale.
Vediamone alcuni esempi.
PATTO DI STABILITA’
Uno dei primi strumenti che possono essere utilizzati per stabilizzare il rapporto di lavoro consiste nella previsione di un patto di stabilità, ovvero di una clausola contrattuale con la quale viene garantita una durata minima del rapporto, durante il quale il lavoratore non può dimettersi volontariamente dal rapporto di lavoro.
Essa, evidentemente, viene prevista quando, ad esempio la formazione del dipendente rappresenta un investimento notevole per il datore di lavoro oppure quando è necessario tutelare la presenza in azienda di professionalità specializzate, strategiche o di difficile reperimento sul mercato.
Tale clausola costituisce una limitazione della libertà contrattuale e non è disciplinata da alcuna normativa ad hoc, tuttavia, in presenza di determinate condizioni viene pacificamente riconosciuta come legittima dalla giurisprudenza.
Si afferma infatti che il lavoratore subordinato è libero di disporre della propria facoltà di recesso dal rapporto; la clausola con cui si prevedano limiti all’esercizio di detta facoltà non contrasta con alcuna norma o principio dell’ordinamento giuridico e può pertanto essere posto a carico del lavoratore un obbligo risarcitorio o il pagamento di una penale, in caso di dimissioni anticipate del lavoratore rispetto al periodo di durata minima stabilito.
La medesima clausola, peraltro, per la giurisprudenza maggioritaria, non rientra neppure in alcuna delle ipotesi di cui al secondo comma dell’art. 1341 cod. civ., per le quali è richiesta l’approvazione specifica per iscritto.
Trattandosi di un’importante limitazione all’autonomia contrattuale, ai fini della sua validità sono tuttavia richiesti alcuni requisiti:
Forma scritta: trattandosi di una deroga alla disciplina generale del contratto di lavoro deve necessariamente essere provata per scritto;
Determinatezza della durata: non è possibile prevedere patti di stabilità a tempo indeterminato, deve pertanto essere espressamente previsto la durata dell’obbligo;
Onerosità: a fronte del sacrificio richiesto al lavoratore deve necessariamente essere previsto un corrispettivo; la corrispettività, tuttavia, non va valutata atomisticamente, come contropartita dell’assunzione dell’obbligazione, bensì alla luce del complesso delle reciproche pattuizioni contrattuali, potendo consistere anche nella reciprocità dell’impegno di stabilità ovvero in una diversa prestazione a carico del datore di lavoro, quale una maggiorazione della retribuzione o una obbligazione non monetaria, purché non simbolica e proporzionata al sacrificio assunto dal lavoratore ( n. 14457/2017).
PROLUNGAMENTO DEL PERIODO DI PREAVVISO
Un’altra forma di tutela aziendale è rappresentata dal patto di prolungamento del periodo di preavviso, in caso di dimissioni da parte del lavoratore.
Diversamente dal precedente in questo caso la deroga alla disciplina generale incide sul momento patologico del rapporto, ovvero dopo che il lavoratore ha rassegnato le proprie dimissioni, andando a prolungare il termine di preavviso previsto dal CCNL applicato.
Tale clausola ha comunque una buona efficacia deterrente, in quanto proporsi ad un’azienda per una nuova occupazione indicando che la propria disponibilità è differita allo scadere di un tempo di preavviso prolungato, può non essere molto accattivante, non avendo, spesso, le aziende la possibilità o comunque l’interesse verso risorse non immediatamente disponibili.
L’efficacia deterrente può essere, inoltre, ulteriormente rinforzata mediante la previsione di una penale a carico del lavoratore, in caso di inadempimento.
Anche tale accordo per essere valido deve essere scritto ed a titolo oneroso e il pagamento non deve essere simbolico, ma adeguato al sacrificio imposto al lavoratore.
PATTO DI NON CONCORRENZA
Il patto di non concorrenza, ovvero il patto con il quale il lavoratore si impegna a non svolgere attività lavorativa in favore di imprese concorrenti dopo la cessazione del rapporto di lavoro, assolve principalmente una funzione di protezione, ovvero evitare che il dipendente, mediante il know how acquisito alle dipendenze dell’azienda possa svolgere atti di concorrenza in via diretta o favorendo un diretto competitor.
Tuttavia, come il precedente, anche la previsione di un patto di non concorrenza nei confronti di dipendenti maggiormente strategici e qualificati può avere un importante forza deterrente delle dimissioni, impedendo ai lavoratori sottoposti a tale impegno di proporsi o comunque di accettare posizioni lavorative relative al medesimo settore di provenienza, che costituisce notoriamente, il più semplice, oltre che pericoloso per le aziende, rischio di attrazione e sottrazione delle risorse.
I requisiti di validità del patto di non concorrenza, sono disciplinati dall’art. 2125 c.c. e sono molto stringenti:
Forma scritta: solitamente viene previsto unitamente alla lettera di assunzione, ma può essere previsto anche successivamente all’assunzione ed in via autonoma;
Oggetto determinato: devono essere determinate la tipologia delle attività/mansioni del dipendente, nonché delle aziende rientranti nell’oggetto della limitazione;
Durata: non superiore a 3 anni per i dipendenti e 5 anni per i dirigenti
Limitazione territoriale: indicazione delle aree geografiche di operatività del patto
Corrispettivo: il corrispettivo deve necessariamente essere previsto ed in misura congruo in relazione al sacrificio richiesto a quest’ultimo. La somma dovuta lavoratore può essere stabilita come quota fissa o come percentuale della retribuzione, purchè l’importo corrisposto al lavoratore sia determinato o almeno determinabile, non potendo dipendere la determinazione del corrispettivo dalla sola durata del rapporto (elemento sottratto alla disponibilità del lavoratore).
PIANI di INCENTIVAZIONE E FRINGE BENEFIT
In ultimo, ma non certo per ordine di importanza, per garantire una buona fidelizzazione del personale è utile, se non indispensabile, garantire la soddisfazione del lavoratore durante il corso del rapporto lavorativo.
I piani di incentivazione legati a riconoscimenti di premi di risultato da erogarsi in retribuzione e/o mediante benefit in natura sono sicuramente strumenti utile a perseguire la finalità di retention, avendo un forte impatto sulla motivazione dei dipendenti.
La previsione di un sistema remunerativo variabile, in parte connesso ai risultati raggiunti, deve essere tuttavia, caratterizzato da un’attenta regolamentazione, con fissazione di obiettivi ben definiti per scritto e condivisi tra le parti, misurabili oggettivamente e raggiungibili secondo un criterio di normale prevedibilità.
Altre modalità per riconoscere la qualità del lavoro svolto, sono l’attribuzione di benefit mediante piani di welfare aziendale. Questi rappresentano incentivi non monetari capaci di rispondere ai bisogni dei dipendenti in ambito lavorativo (auto aziendale, computer portatile, smartphone aziendali ecc.) e privato (convenzioni sanitarie, asili, palestre ecc.).
Si tratta di modalità utilizzate proprie per valorizzare l’operato dei singoli in azienda con interventi concreti e garantire una maggiore fidelizzazione appartenenza all’azienda.
Infortuni sul lavoro e risarcimento del danno differenziale
L’indennizzo da parte dell’INAIL.
Gli infortuni occorsi ai dipendenti pubblici o privati durante lo svolgimento della prestazione lavorativa sono soggetti alla copertura dell’I.N.A.I.L. il quale provvede a corrispondere al lavoratore le prestazioni previste dalla legge.
Si tratta in particolare dell’indennità per il periodo di inabilità assoluta temporanea parametrata sulla retribuzione percepita dal lavoratore e, in caso di postumi di un’invalidità permanente superiore al 6 %, dell’ indennizzo in forma capitale o (se il danno biologico superiore al 16 %) in forma di rendita vitalizia.
La misura dell’indennizzo erogata dall’Istituto viene calcolata sulla base delle tabelle INAIL e non comporta l’integrale risarcimento del danno biologico subito dal lavoratore.
Il danno differenziale.
Il risarcimento integrale del danno, definito danno differenziale proprio in quanto corrisponde alla differenza tra la somma dovuta al dipendente per il pregiudizio subito e quanto già erogato dall’INAIL a titolo di indennizzo, spetta al lavoratore soltanto nel caso in cui l’infortunio sia avvenuto per responsabilità del datore di lavoro e sarà pertanto da questi dovuto.
L’obbligo di prevenzione dei rischi da parte del datore di lavoro.
Il datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c. ha, infatti l’obbligo di adottare tutte le misure necessarie a tutela dell’integrità psico fisica dei propri dipendenti previste da norme di legge (tra cui le più importanti quelle contenute nel T.U. 81/2008 in materia di sicurezza sul lavoro) o suggerite dalle migliori conoscenze sperimentale o tecniche del momento.
L’inosservanza di tali obblighi, ove sia stata la causa dell’infortunio, può dare origine alla responsabilità dell’imprenditore e pertanto può essere fatta valere dal lavoratore con un’azione risarcitoria.
La natura e l’estensione della responsabilità dell’imprenditore.
Va precisato che la responsabilità del datore di lavoro non è di tipo oggettivo, ovvero automaticamente sussistente ogni volta che il dipendente abbia riportato lesioni in occasione dello svolgimento dell’attività lavorativa, essendo sempre necessario individuare un profilo di colpa del datore di lavoro, intesa quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore.
È però, altrettanto vero che la giurisprudenza ha notevolmente esteso le maglie della responsabilità datoriale. Si ritiene, infatti, che le norme in materia di prevenzione degli infortuni in capo al datore di lavoro, essendo finalizzate ad impedire l’insorgenza di situazioni pericolose, siano dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, insiti nella tipologia di attività svolta, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, vigendo in capo al datore di lavoro un obbligo di vigilanza e controllo.
Il datore di lavoro è, dunque, ritenuto responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che il dipendente osservi correttamente tali misure, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente per l’imprenditore, all’eventuale concorso di colpa del lavoratore.
Il comportamento abnorme del lavoratore.
L’imprenditore viene, invece, esonerato dalla responsabilità nelle ipotesi in cui il lavoratore abbia posto in essere un comportamento “abnorme”, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell’evento e creare condizioni di rischio (detto rischio elettivo) estranee alle normali modalità del lavoro da svolgere.
Si deve trattare, dunque, di una condotta personalissima del lavoratore, avulsa dall’esercizio della prestazione lavorativa o anche ad essa riconducibile, ma esercitata e intrapresa volontariamente in base a ragioni e motivazioni del tutto personali e non prevedibili dal datore di lavoro, al di fuori dell’attività lavorativa e prescindendo da essa, come tale idonea ad interrompere il nesso eziologico tra prestazione lavorativa ed attività assicurata.
Un caso concreto.
Per comprendere meglio il concetto di comportamento abnorme, si segnala una recente sentenza della Corte di Cassazione (Cass. 3282/2020) che ha escluso la responsabilità datoriale per l’infortunio del lavoratore. Nel caso concreto era stato accertato in giudizio che il lavoratore, seppure adeguatamente dotato dei dispositivi antinfortunio e informato sul corretto uso degli stessi, oltre che più volte richiamato al rispetto delle regole antinfortunistiche, aveva omesso volontariamente e imprudentemente di agganciare la cintura di sicurezza anticaduta al cestello.
Tale comportamento aveva quindi assunto il carattere dell’assoluta imprevedibilità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, da porsi quale causa esclusiva dell’evento e tale da escludere la responsabilità del datore di lavoro.
Concludendo.
In definitiva, quindi, possiamo affermare che il datore di lavoro è ritenuto responsabile dell’infortunio del lavoratore e tenuto pertanto a risarcire il danno differenziale quando abbia omesso di adottare tutte le misure protettive necessarie ad evitare l’evento dannoso, comprese quelle esigibili in relazione alla possibile negligenza o imprudenza del lavoratore. È, inoltre, responsabile quando abbia omesso di adeguatamente controllare e vigilare affinché le misure siano rispettate da parte del lavoratore.
Non è invece ritenuto responsabile quando l’infortunio sia determinato da un comportamento del lavoratore abnorme, imprevedibile ed esorbitante rispetto alle direttive impartite e al normale procedimento di lavoro.
Gli strumenti per la ripartenza delle imprese: contratto di rioccupazione e contratto di espansione
Il Decreto “Sostegni-bis” approvato il 20 maggio 2021 dal Consiglio dei Ministri ha introdotto una serie di misure in tema di imprese e lavoro, destinate a sostenere la fase di ripresa delle attività produttive post pandemia con l’obiettivo di scongiurare l’effetto dei licenziamenti di massa e incentivare nuove assunzioni.
Si ricorda, infatti, che contrariamente a quanto inizialmente previsto, il nuovo decreto non ha inserito una nuova proroga al divieto di licenziamento, che rimane confermato fino al 30.06.2021 per la generalità delle aziende che non intendano richiedere la Cassa Integrazione Ordinaria (non COVID) e sino al 31 ottobre 2021 per le aziende che usufruiscono degli ammortizzatori COVID-19 quali FIS, Cassa integrazione in deroga e prestazioni erogate dai Fondi di solidarietà bilaterali.
Contratto di rioccupazione
Uno degli strumenti previsti dal Decreto Sostegni-bis (art. 41) per agevolare nuove assunzioni è il c.d. contratto di rioccupazione. Si tratta di una nuova tipologia di contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato rivolto ai lavoratori che si trovino al momento dell’assunzione in stato di disoccupazione ed è caratterizzato da un periodo iniziale di inserimento, al termine del quale le parti possono decidere liberamente se confermare o recedere dal contratto.
Le caratteristiche principali del nuovo contratto di rioccupazione possono essere riassunte come segue:
caratteristica peculiare di tale strumento è la predisposizione da parte del datore di lavoro, con il consenso del lavoratore, di un progetto individuale di inserimento di durata pari a 6 mesi finalizzato a “garantire l’adeguamento delle competenze professionali del lavoratore stesso al nuovo contesto lavorativo”.
Il contratto è soggetto fin dalla sua instaurazione alla disciplina del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con la conseguenza che durante il periodo di inserimento, trovano applicazione le sanzioni previste dalla normativa vigente per il licenziamento illegittimo.
Diverge, invece, dal contratto a tempo indeterminato “standard”, in quanto al termine dei primi 6 mesi di inserimento, le parti possono recedere dal contratto ai sensi dell’art. 2118 cod. civ., con preavviso decorrente dal medesimo termine. Laddove le parti non recedano il rapporto prosegue come un ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Ambito di applicazione: sarà possibile assumere con contratto di rioccupazione e godere delle relative agevolazioni per tutti i datori di lavoro privati, con esclusione del settore agricolo e del settore domestico, purché nei sei mesi precedenti all’assunzione non abbiano effettuato licenziamenti collettivi o individuali per motivo oggettivo; possono essere assunti solo lavoratori in stato di disoccupazione;
Potranno, inoltre, essere stipulati tali contratti, salvo successive proroghe, soltanto per il periodo dal 01 luglio 2021 al 31 ottobre 2021.
L’incentivo ad assumere con tale tipologia contrattuale consiste nell’ esonero totale dal versamento dei contributi previdenziali – con esclusione dei premi e dei contributi dovuti all’INAIL – per 6 mesi e nel limite massimo di importo di Euro 6.000,00 annui, da riparametrare ed applicare su base mensile.
L’incentivo rappresentato dall’esonero contributivo totale è, dunque, una buona opportunità di risparmio sul costo lavoro per le aziende, ma occorre fare molta attenzione, in quanto la norma chiarisce espressamente che l’esonero:
è escluso laddove nei 6 mesi precedenti all’assunzione con contratto di rioccupazione, il datore di lavoro abbia intimato licenziamenti per giustificato motivo ovvero abbia avviato procedure di licenziamento collettivo nella medesima unità produttiva;
è revocato (con conseguente restituzione del beneficio già fruito) nel caso in cui il lavoratore venga licenziato durante o al termine del periodo di inserimento, ovvero nel caso in cui il datore di lavoro, nei 6 mesi successivi all’assunzione, avvii un licenziamento collettivo o intimi il licenziamento per giustificato motivo oggettivo di un dipendente impiegato nella medesima unità produttiva e inquadrato con lo stesso livello e categoria legale di inquadramento del lavoratore assunto con il contratto di rioccupazione.
Contratto di espansione
Ulteriore strumento, più complesso del primo, finalizzato a favorire la ripartenza delle imprese, è rappresentato dal contratto di espansione, già introdotto dal decreto Crescita come strumento a sostegno dei processi di reindustrializzazione e riorganizzazione delle grandi imprese con organico superiore a 1000 unità.
Il Decreto “Sostegni-bis” è intervenuto riducendo a 100 dipendenti la soglia minima per accedere al “contratto di espansione” rappresentando un’opportunità anche per le PMI.
Le imprese, interessate da tale requisito dimensionale, raggiungibile anche attraverso una rete di imprese, che intendano avviare modifiche organizzative e produttive finalizzate all’innovazione tecnologica, possono accedere, attraverso il contratto di espansione, ad un piano di riorganizzazione stipulato in sede governativa con le rappresentanze sindacali e contare in tal modo su cassa integrazione straordinaria e agevolazioni contributive per piani di assunzione contestuali alle uscite, volontarie, dei lavoratori più anziani.
La misura prevede, infatti, diversi interventi all’interno dell’azienda, essendo necessario:
un piano assunzioni di risorse umane qualificate e specializzate, in possesso delle competenze necessarie all’impresa per restare competitiva.
Scivoli per la pensione: avvio di piani concordati di esodo per i lavoratori che si trovino a non più di 60 mesi (5 anni) dal conseguimento del diritto alla pensione. Gli interessati devono dare il loro consenso in forma scritta. A questi lavoratori il datore di lavoro riconosce un’indennità mensile, “di esodo”, commisurata al trattamento pensionistico lordo maturato dal lavoratore al momento della cessazione del rapporto fino alla prima decorrenza utile della pensione. Da tale somma viene dedotto l’importo di NASPI che sarebbe spettato al lavoratore per tutto il periodo di spettanza dell’indennità di disoccupazione.
Riduzione dell’orario di lavoro dei dipendenti con accesso alla cassa integrazione straordinaria per i lavoratori che non hanno i requisiti per accedere allo scivolo pensionistico per un massimo di 18 mesi; la riduzione media oraria non può superare il 30% dell’orario giornaliero, settimanale o mensile dei lavoratori interessati. Inoltre, per ciascun lavoratore la percentuale di riduzione complessiva dell’orario di lavoro può essere concordata, fino al 100% nel periodo coperto dal contratto.
un piano di formazione per i dipendenti che abbiano bisogno di aggiornamenti, soprattutto tecnologici.
Per presentare il piano l’impresa deve:
concordare con le RSA o alla RSU delle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative le cause di sospensione o di riduzione dell’orario di lavoro, l’entità e la durata prevedibile, il numero dei lavoratori interessati, nonchè la volontà di sottoscrivere un contratto di espansione ex art. 41 comma 5 e 5 bis D.Lgs. 148/2015.
Deve anche essere presentata domanda di esame congiunto della situazione aziendale al competente al Ministero del lavoro e delle politiche sociali, o agli uffici regionali.
Smart Working e controlli a distanza dei lavoratori: geolocalizzazione e software ad hoc
La pandemia e la conseguente legislazione di emergenza hanno sdoganato l’istituto dello “smart- working” (per approfondire vai all’articolo:Smart-working-in-cosa-consiste-come-si-realizza-perche-conviene/) divenuto da strumento poco conosciuto ed utilizzato soltanto dalle multinazionali o realtà di grandi dimensioni e unicamente per determinati profili, a modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa per la maggior parte delle imprese italiane.
Il passaggio a tale modalità lavorativa è stato, infatti, largamente incentivato dai decreti-legge che si sono succeduti nel corso dei mesi dell’emergenza sanitaria introducendo una procedura di attivazione semplificata, senza necessità di accordo tra le parti, in deroga alla l. n. 81/2017 e con possibilità di semplificata di assolvere all’obbligo di informativa sulla sicurezza.
Tale strumento se da un lato ha sicuramente permesso la prosecuzione delle attività aziendale, dall’altro lato ha trovato impreparati molti datori di lavoro i quali, spesso ancorati alla concezione ordinaria del rapporto di lavoro parametrato su un determinato orario e sulla possibilità costante di controllare l’operato dei propri dipendenti si sono posti il problema di mantenere tali prerogative anche con i propri smart worker.
Ecco allora che le domande più frequenti che ci sono state rivolte sul tema sono state le seguenti:
È possibile installare (ed utilizzare per fini disciplinari) sui pc aziendali un software che tracci la presenza del dipendente davanti al computer e/o il suo collegamento alla rete aziendale?
Posso effettuare controlli da remoto dell’attività svolta dai dipendenti che si trovano in smart working?
È possibile geolocalizzare i dipendenti attraverso un GPS da inserire nel PC per sapere se effettivamente si trovano a casa durante l’orario lavorativo?
Per rispondere a tali interrogativi occorre partire dall’analisi dell’ art.. 4 dello Statuto dei lavoratori, espressamente richiamato anche dalla normativa regolatoria del lavoro agile (L. 81/2017), il quale prevede un regime diverso a seconda del tipo di strumento utilizzato.
In via generale sussiste un divieto generale di utilizzo di strumenti tecnologici finalizzati unicamente al controllo a distanza dell’attività lavorativa dei dipendenti.
Sono invece ammessi, previo accordo sindacale o autorizzazione della sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, i controlli a distanza dei lavoratori, effettuati attraverso determinate apparecchiature tecnologiche (impianti audiovisivi, strumenti di geolocalizzazione, ecc.) purchè installati in via primaria per esigenze di sicurezza del lavoro, per la tutela del patrimonio aziendale o per esigenze organizzative e produttive.
È espressamente escluso l’obbligo di accordo sindacale o di autorizzazione dell’ispettorato, laddove il controllo a distanza venga esercitato attraverso strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa” e gli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze. A tal fine l’Ispettorato del Lavoro e il Garante della Privacy hanno precisato che per “strumenti di lavoro” devono intendersi tutti quei dispositivi utilizzati in via primaria ed essenziale per l’esecuzione dell’attività lavorativa, ovvero direttamente preordinati all’esecuzione della prestazione lavorativa. (es. pc, telefono aziendale, posta aziendale).
Viene infine precisato dalla normativa che, in ogni caso, l’utilizzo delle informazioni raccolte è consentito a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro (anche disciplinare) a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto della normativa sulla privacy nella raccolta e nel trattamento dei dati.
L’informativa deve contenere espressamente l’indicazione degli strumenti che consentono il controllo a distanza nelle loro caratteristiche e funzionamento, le modalità e le regole di utilizzo di tali strumenti, il tipo di controlli che potranno essere effettuati dall’azienda, i dati conservati e i soggetti abilitati ad accedervi, nonché le modalità e i tempi di conservazione dei dati stessi e le eventuali sanzioni, anche di tipo disciplinare, che potranno essere comminate al dipendente/trasgressore.
In definitiva, quindi, in mancanza di una policy aziendale adeguata e in caso di raccolta e trattamento dei dati secondo modalità contrarie alla legge sulla privacy, i dati non possono essere utilizzati, ad esempio, in sede giudiziale per dimostrare l’illegittimità del comportamento del dipendente accertato sulla base dei dati raccolti dagli strumenti di lavoro e non.
All’esito della disamina sopra svolta, volendo fornire una risposta agli interrogativi sopra indicati, possiamo affermare quanto segue:
Sono vietati l’installazione e l’utilizzo di software o altre apparecchiature e sistemi di controllo a distanzasullo svolgimento della prestazione lavorativa del dipendente. Il ricorso a questi apparecchi può essere consentito solo in caso di accordo sindacale o di autorizzazione dall’Ispettorato territoriale del lavoro, per motivi di sicurezza aziendale o per esigenze produttive, che nel caso previsto nella prima domanda, difficilmente potrà essere raggiunto, trattandosi di strumenti unicamente a finalizzati al controllo dell’attività lavorativa
Il controllo anche se da remoto delle attività lavorative svolte tramite gli strumenti di lavoro, quali PC o posta elettronica, può essere effettuato a condizione che sia stata fornita adeguata informativa al dipendente e sia rispettata la normativa sulla privacy.
Il Garante per la privacy in più occasioni si è espresso nel senso di ritenere che gli strumenti di geolocalizzazione non costituiscono strumenti di lavoro, ma strumenti di controllo, che solo eccezionalmente si possono considerare in veri e propri strumenti di lavoro. Pertanto per la loro installazione è necessario procedere con accordo sindacale o autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro che verrà concessa solo ove rispondano ad un’effettiva esigenza organizzativa, produttiva o di sicurezza.
In conclusione, suggeriamo alle aziende che intendano continuare ad utilizzare lo smart working, anche dopo il periodo emergenziale, di prestare molta attenzione al tema del possibile controllo a distanza delle attività lavorative e regolare fin d’ora ogni aspetto, stipulando accordi con il lavoratore e dotandosi di una policy aziendale adeguata, spesso sottovalutata, ma di grande importanza per evitare spiacevoli sorprese sia in caso di accessi degli enti ispettivi, sia in caso di contenzioso con i dipendenti.
Il divieto dei licenziamenti a durata variabile: facciamo chiarezza
Il divieto dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo costituisce una delle misure più discusse che i vari decreti succedutesi a partire dal D. Cura Italia per fronteggiare l’emergenza sanitaria ed economica da Corona Virus hanno introdotto.
L’art. 14 del decreto Agosto (D.L. 14 agosto 2020, n. 104) al fine di bilanciare le contrapposte esigenze sindacali ed aziendali rispettivamente a sostegno e critica della sospensione dei licenziamenti inizialmente previsto fino al 17 agosto 2020, ha individuato un sistema combinato di misure che rendono il termine per la decadenza del divieto variabile a seconda della scelta effettuata dalla singola azienda, prevedendo altresì una serie di deroghe al divieto.
La durata variabile
Il Decreto Agosto ha, infatti, previsto da un lato un nuovo periodo di ammortizzatori sociali da utilizzare tra il 14 Luglio 2020 e il 31 Dicembre 2020 per un totale di 18 settimane (art. 1 D.L. 104/2020); dall’altro lato ha individuato una nuova misura destinata alle aziende che non intendono utilizzare il nuovo periodo di cassa integrazione consistente in un esonero contributivo per un periodo massimo di 4 mesi e per un monte ore pari al doppio di quelle utilizzate per CIG nei mesi di maggio e giugno 2020. (art. 3 D.L. 104/2020)
Si è quindi stabilito che il divieto di licenziamento per motivi economici decadrà entro il termine ultimo del 31.12.2020 in un momento diverso a seconda della misura adottata dall’azienda ovvero:
1) dopo la totale fruizione delle ulteriori 18 settimane di ammortizzatori sociali previsti dall’art. 1 del Decreto, oppure
2) al termine dell’utilizzo dell’agevolazione contributiva prevista dall’art. 3 del D.L. 104/2020
con la conseguenza che il termine del divieto potrà essere per le singole aziende sensibilmente diverso.
A titolo esemplificativo si osservi che se un’azienda ha usufruito del trattamento di integrazione salariale in via continuativa dall’inizio dell’emergenza la sospensione dei licenziamenti terminerà il 16 novembre 2020, se invece è stato operato un frazionamento, con saltuaria riammissione totale dei dipendenti e/o utilizzo delle ferie, il divieto potrà arrivare fino al termine ultimo del 31 Dicembre 2020.
Ed ancora, ove l’azienda avesse optato (con scelta irreversibile) per l’agevolazione contributiva e nei mesi di maggio e giugno 2020 avesse ipoteticamente sfruttato soltanto due settimane di cassa integrazione già dopo un mese dal 17 agosto 2020 potrebbe trovarsi nelle condizioni di poter licenziare.
I chiarimenti dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro
Sull’operatività di tale differenti misure si rileva che la recente circolare dell’Ispettorato del Lavoro del 17.09.2020 ha chiarito, essendo emersi dubbi interpretativi sul punto, che potranno beneficiare dell’agevolazione contributiva anche i datori di lavoro ammessi al trattamento di cassa integrazione ai sensi del D.L. n. 18/2020 (Cura Italia) e che abbiano fruito di periodi di cassa, anche parzialmente, dopo il 12 luglio. Si precisa, inoltre, che laddove si riscontri la violazione del divieto di cui all’art. 14, verrà disposta la revoca dell’esonero con efficacia retroattiva ed al contempo l’impossibilità di presentare domanda per i trattamenti di integrazione salariale (comma 3). Il beneficio è altresì cumulabile con altri esoneri o riduzioni delle aliquote di finanziamento previsti dalla normativa vigente, nei limiti della contribuzione previdenziale dovuta.
Deroghe al divieto
L’art. 14 del D. Agosto ha introdotto, inoltre, alcune deroghe espresse al divieto di licenziamento, prevedendo che i datori di lavoro possano procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo nei seguenti casi:
Cessazione definitiva dell’attività dell’impresa, con messa in liquidazione della società. Una cessazione parziale come, ad esempio, la chiusura di una unità produttiva di per sé non porta alla sospensione del blocco.
Accordo collettivo aziendale: si concede alle aziende la possibilità di procedere ad una riduzione di personale previo raggiungimento di un accordo con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, con un incentivo all’esodo per i dipendenti che aderiscono, ai quali viene riconosciuto il diritto alla NASPI, , pur trattandosi di una risoluzione consensuale.
Fallimento della società senza alcun esercizio provvisorio dell’attività, con cessazione totale della stessa. Anche in questo caso, non opera il divieto nel caso in cui sia stato disposto l’esercizio provvisorio dell’attività da parte di un ramo dell’azienda, resteranno esclusi i settori non compresi nel fallimento.
Licenziamenti esclusi dal divieto
Si ricorda, infine, che i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, soggetti al divieto di cui si è sopra detto, non esauriscono i possibili recessi datoriali che, comunque, restano ammissibili in questo periodo e che elenchiamo di seguito:
i licenziamenti per motivi soggettivi adottati al termine della procedura disciplinare di cui all’art. 7 L. 300/1970, siano essi per giusta causa che per giustificato motivo soggettivo
i licenziamenti per raggiungimento del limite massimo di età per la fruizione della pensione di vecchiaia;
i licenziamenti determinati da superamento del periodo di comporto. Rispetto a tali licenziamenti occorre porre attenzione alle eventuali assenze per malattia connesse al periodo di quarantena e/o isolamento domiciliare che non possono essere conteggiate ai fini del computo del periodo di comporto (art. 26, comma 1, del decreto 18/2020 e successive modifiche)
i licenziamenti durante o al termine del periodo di prova
i licenziamenti dei dirigenti sulla base della c.d. “giustificatezza”;
i licenziamenti dei lavoratori domestici
la risoluzione del rapporto di apprendistato al termine del periodo formativo a seguito di recesso ex art. 2118 c.c. Si consideri, sul punto, che il periodo formativo dell’apprendistato professionalizzante è prorogato per un periodo uguale a quello in cui l’apprendista ha fruito della integrazione salariale.
I contratti a termine durante l’emergenza sanitaria: le deroghe alla disciplina generale previste dal D. Cura Italia e dal D. Rilancio.
La disciplina generale del contratto a tempo determinato
Il contratto a termine è disciplinato dal d. lgs. n. 81/2015, come modificato dal D. Dignità e costituisce un’eccezione al modello generale rappresentato dal contratto di lavoro a tempo indeterminato. Proprio in ragione della sua natura eccezionale rispetto al modello comune è sottoposto ad una serie di condizioni e requisiti di legittimità, divenute oggetto di numerosi interventi e successive modifiche legislative orientati ad una maggiore o minore restrizione a seconda della finalità perseguita di riduzione della precarietà ovvero di maggiore flessibilizzazione del mercato del lavoro.
Le regole generali attualmente in vigore possono essere sintetizzate come segue:
La durata del contratto di lavoro a tempo determinato “a-causale”, ovvero non sorretto da alcune ragione giustificatrice della temporaneità, non può essere superiore ai 12 mesi.
Al superamento dei 12 mesi, il contratto può essere prorogato o rinnovato fino ad una durata massima di 24 mesi solo in presenza di determinate causali, tassativamente indicate dalla legge e consistenti in:
Esigenze temporanee ed oggettive, estranee all’ordinaria attività;
Ragioni sostitutive;
Esigenze connesse ad incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria;
In ogni caso il numero di proroghe consentite entro i 24 mesi non può essere superiore a 4, indipendentemente dal numero dei rinnovi.
Nelle ipotesi di rinnovo è necessario che trascorra un lasso di tempo tra i due contratti a termine, stipulati tra le stesse parti contrattuali:
intervallo di 10 giorni se la durata del primo contratto è inferiore ai 6 mesi;
intervallo di 20 giorni se la durata del primo contratto è superiore ai 6 mesi.
Il mancato rispetto delle disposizioni in ordine alla durata e al numero massimo delle proroghe determina la conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato.
Ciascun datore di lavoro è consentito stipulare un numero complessivo di contratti a tempo determinato non superiore al 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato
Per le ipotesi di violazione del limite percentuale, è prevista soltanto una sanzione amministrativa- e non la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato a carico del datore di lavoro.
È vietata l’assunzione o la proroga di lavoratori a tempo determinato presso unità produttive ove sono in corso sospensioni o riduzioni di orario in regime di integrazione salariale, che riguardano dipendenti adibiti a mansioni alle quali si riferisce il contratto a termine,
Ebbene, fin dall’inizio della crisi sanitaria determinata dalla pandemia da COVID -19, è emerso con tutta evidenza che la rigidità delle regole dettate in materia di contratti a termine avrebbe determinato come immediata conseguenza dell’incertezza economica, l’interruzione di tutti (o quasi) i rapporti di lavoro a termine che fossero giunti alla loro naturale scadenza durante o immediatamente dopo i mesi dell’emergenza sanitaria.
Il Governo è, dunque, intervenuto al fine di tutelare i posti di lavoro dei dipendenti a tempo determinato prevedendo, prima nella L. Di Conversione del decreto “cura Italia” (Legge 27/2020) e successivamente nel recente decreto “Rilancio” (D.L. 34/2020), alcune disposizioni derogatorie delle regole generali sopra ripercorse.
Le deroghe previste dal Decreto “Cura Italia”e dal Decreto “Rilancio”
L’art. 19 bis della L. di conversione del D.L. 18/2020 Cura Italia (che nulla aveva previsto in materia) prevede una prima importante norma in deroga a tre regole generali previste dal D. lgs n. 81/2015 stabilendo:
La possibilità di prorogare e rinnovare contratti a tempo determinato nel periodo in cui l’azienda ha in atto una sospensione del lavoro o una riduzione dell’orario in regime di cassa integrazione guadagni, in deroga all’art. 20, comma 1, lettera c)che – come sopra detto – vieta l’apposizione di un termine al contratto di lavoro qualora l’azienda abbia attivo, nelle medesime unità produttive, un ammortizzatore sociale.
L’estensione di tale possibilità anche alle proroghe ed i rinnovi a termine di un lavoratore da parte di una Agenzia per il lavoro, a scopo di somministrazione, presso datori di lavoro che hanno in corso sospensioni o riduzioni di orario per i propri dipendenti che sono adibiti alle stesse mansioni ai quali si riferiscono i contratti di somministrazione
È stato, inoltre, rimosso il vincolo che prevede, in caso di successivo rinnovo del contratto a termine con il medesimo lavoratore, l’obbligo di una “vacanza” contrattuale (anche detta “stop & go”) tra due rapporti a tempo determinato. In caso di successivi rinnovi, quindi, non dovrà essere rispettato lo stop di dieci giorni dalla scadenza di un contratto di durata fino a sei mesi, ovvero di venti giorni dalla data di scadenza di un contratto superiore ai sei mesi.
La seconda norma finalizzata al mantenimento dei rapporti di lavoro a termine è stata prevista dall’articolo 93, del decreto “Rilancio” (Decreto Legge n. 34/2020), introdotta, invero, per colmare un grave lacuna dei precedenti intervenuti governativi, i quali pur consentendo proroghe e rinnovi durante i periodi di sospensione o riduzione delle attività per Cassa Integrazione nulla aveva previsto in ordine alla necessità di rispettare l’obbligo di sussistenza delle causali giustificatrici, tassativamente indicate dalla legge.
Con l’art 93 del D.L. Rilancio è stata, quindi, introdotta la possibilità, in deroga all’articolo 21 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, di”rinnovare o prorogare fino al 30 agosto 2020 i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato in essere alla data del 23 febbraio 2020 anche in assenza delle condizioni introdotte dal decreto “Dignità” e quindi senza l’apposizione delle specifiche causali.
Su questo punto si segnala che erano sorte perplessità sull’interpretazione del testo normativo perché non era chiaro se il termine del 30 agosto si riferisse alla data di inizio o di conclusione del rinnovo o proroga contrattuale. Il ministero del lavoro in una faq dei giorni scorsi ha fornito una interpretazione restrittiva stabilendo che i contratti in essere possono avere durata rinnovata o prorogata fino al 30 agosto.
Un’ulteriore novità riguarda, inoltre, il lavoro agricolo,venendo stabilita la possibilità per i percettori di ammortizzatori sociali a zero ore, solo per il periodo di sospensione dalla prestazione lavorativa a zero ore, i percettori di indennità di disoccupazione NASPI e DIS-COLL e i percettori di Reddito di cittadinanza, di stipulare con datori di lavoro del settore agricolo contratti a termine non superiori a 30 giorni, rinnovabili per ulteriori 30 giorni, senza subire la perdita o la riduzione dei benefici a carico dell’INPS, nel limite di 2000 euro per l’anno 2020.
Cosa cambia in materia di appalti nel 2020: nuovi obblighi e sanzioni a carico di committente e appaltatori
Come ormai noto agli operatori del settore, il Decreto fiscale 2020 (D.L. n. 124/2019), come modificato dalla Legge di conversione L. n. 157/2019 ha introdotto importanti novità in tema di appalti con decorrenza a far data dal 31 gennaio 2020, imponendo ai committenti una serie di oneri aggiuntivi, finalizzati a controllare e garantire il regolare adempimento dei versamenti delle ritenute fiscali da parte delle imprese appaltatrici a cui, nell’ambito della propria attività, hanno affidato in outsourcing lavori, opere o servizi.
Vediamo nel dettaglio in cosa consistono tali novità, in quali casi si applicano e da quando si applicano, nonché che tipo di conseguenze comporta la loro violazione.
Ambito di applicazione
Iniziamo con il dire che le novità normative introdotte dall’art. 4 del D.L. 124/2019 e riportate integralmente nell’art. 17 bis del D.lgs. n. 241/1997 si applicano alle seguenti tipologie contrattuali: tutti i contratti di appalto, subappalto, affidamento a soggetti consorziati o rapporti negoziali comunque denominati, nei quali l’affidamento del compimento di una o più opere o di uno o più servizi sia di importo complessivo annuo superiore a euro 200.000 rispetto ad una singola impresa committente, caratterizzati da prevalente utilizzo di manodopera presso le sedi di attività del committente o con utilizzo di beni strumentali dello stesso committente o ad esso riconducibili in qualunque forma.
Deve trattarsi, quindi, di contratti di una certa rilevanza economica (non inferiori ad € 200.000 annui) nonchè caratterizzati per essere “labour intensive” in quanto, come detto svolti o effettuati con prevalente utilizzo di manodopera, presso le sedi del committente e/o con l’utilizzo di beni strumentali di proprietà del committente.
La norma, inoltre si riferisce, come chiarito anche dalla Circolare dell’AE 1/E/2020 del 12 Febbraio 2020, da un punto di vista soggettivo, ai soggetti residenti in Italia ai fini delle imposte sui redditi e pertanto, stante l’espresso richiamo all’art. 23 del D.P.R. n. 600 /1973, nel novero rientrano:
enti e società indicati nell’articolo 73, comma 1, del TUIR;
società e associazioni indicate nell’articolo 5 del TUIR;
persone fisiche che esercitano imprese commerciali ai sensi dell’articolo 55 del TUIR o imprese agricole;
persone fisiche che esercitano arti e professioni;
curatore fallimentare e commissario liquidatore;
condominio
Sono pertanto esclusi dall’applicazione della norma i soggetti non residenti, senza stabile organizzazione in Italia, nonché i soggetti residenti che non esercitano attività d’impresa o non esercitano imprese agricole o non esercitano arti o professioni, ad esempio i condomìni, in quanto tali soggetti non detengono beni strumentali e dunque non possono esercitare alcuna attività d’impresa o agricola o attività professionale. Per le medesime ragioni sono esclusi dall’ambito di applicazione gli enti non commerciali (enti pubblici, associazioni, trust ecc.) limitatamente all’attività istituzionale di natura non commerciale svolta.
La deroga prevista dall’ art. 17 bis, comma 5 del lgs. n. 241/1997
Fermo restando l’ampio raggio di applicazione delle nuove norme introdotte, l’art. 17 bis comma 5 ha previsto e disciplinato una ipotesi di esonero di applicazione dell’intera nuova disciplina per quelle imprese appaltatrici o affidatarie o subappaltatrici che comunichino al committente, allegando la certificazione rilasciata dall’Agenzia delle entrate, di possedere cumulativamente i seguenti requisiti:
– risultino in attività da almeno tre anni;
– siano in regola con gli obblighi dichiarativi;
– abbiano eseguito nel corso dei periodi d’imposta cui si riferiscono le dichiarazioni dei redditi presentate nell’ultimo triennio versamenti complessivi, registrati nel conto fiscale per un importo non inferiore al 10% dell’ammontare dei ricavi o compensi risultanti dalle dichiarazioni stesse;
– che non abbiano iscrizioni a ruolo o accertamenti esecutivi o avvisi di addebito affidati agli agenti della riscossione relativi alle imposte sui redditi, all’Irap, alle ritenute e ai contributi previdenziali per importi superiori a 50 mila euro, per i quali i termini di pagamento siano scaduti e siano ancora dovuti pagamenti o non siano in essere provvedimenti di sospensione.
L’Agenzia delle entrate, con la recente circolare 1/E/2020 ha chiarito che, su richiesta delle aziende interessate e previa verifica dei requisiti metterà la certificazione (DURF), valida quattro mesi dalla data del rilascio, a disposizione delle singole imprese a partire dal terzo giorno lavorativo di ogni mese. Inoltre, si chiarisce che nel caso in cui il committente sia una pubblica amministrazione la sussistenza dei requisiti potrà essere oggetto di autocertificazione.
I nuovi obblighi previsti a carico delle parti
Per quanto concerne i nuovi obblighi previsti dall’art. 17 bis, la disposizione prevede che le imprese committenti rientranti nell’ambito di applicazione come sopra delineato, sono onerate a richiedere all’impresa appaltatrice o affidataria e alle imprese subappaltatrici, obbligate a rilasciarle, copia delle deleghe di pagamento relative al versamento delle ritenute fiscali trattenute ai lavoratori direttamente impiegati nell’esecuzione dell’opera o del servizio.
In particolare per poter consentire al committente la regolarità delle certificazioni, le imprese appaltatrici o affidatarie e le imprese subappaltatrici dovranno provvedere entro cinque giorni lavorativi successivi alla scadenza del versamento a fornire al committente un elenco dettagliato contenente:
– le deleghe di pagamento, sopra menzionate;
– i nominativi di tutti i lavoratori, identificati mediante codice fiscale, impiegati nel mese precedente direttamente nell’esecuzione di opere o servizi affidati dal committente;
– il dettaglio delle ore di lavoro prestate da ciascun dipendente in esecuzione dell’opera o del servizio affidato;
– l’ammontare della retribuzione corrisposta al dipendente collegata a tale prestazione
– il dettaglio delle ritenute fiscali eseguite nel mese precedente nei confronti di tale lavoratore, con separata indicazione di quelle relative alla prestazione affidata dal committente.
Per arginare il fenomeno degli omessi versamenti, la normativa inoltre, esclude la possibilità di compensazione delle ritenute relative ai redditi di lavoro dipendente e assimilati da parte delle imprese appaltatrici, affidatarie e subappaltatrici che eseguono opere e servizi rientranti nel perimetro della disciplina. Al riguardo l’Agenzia delle Entrate con la circolare 1/E del 12 febbraio 2020 ha chiarito che il divieto di compensazione non è applicabile per i crediti maturati dall’impresa in qualità di sostituto d’imposta (ad esempio rimborsi da 730, eccedenze di versamento o di ritenute, bonus 80 euro).
In caso di mancato adempimento da parte di queste ultime degli obblighi di trasmissione di cui sopra entro il termine di 5 giorni o nel caso di omesso versamento delle ritenute fiscal, il comma 3 dell’art. 17-bis introduce l’obbligo per il committente di sospendere il pagamento dei corrispettivi maturati dall’impresa appaltatrice o affidataria
In sostanza il Committente deve sospendere, finché perdura l’inadempimento, il pagamento dei corrispettivi maturati dall’impresa appaltatrice o affidataria sino a concorrenza del 20% del valore complessivo del servizio o dell’opera ovvero per un importo pari alle ritenute non versate come risultante dai dati delle comunicazioni trasmesse.
Inoltre ne deve dare comunicazione entro 90 giorni all’Agenzia delle Entrate.
A tal proposito sempre nelle indicazioni fornite dall’AE nella circolare 1/E/2020, si afferma che il committente dovrà effettuare una valutazione di “congruità” , verificando che la retribuzione oraria corrisposta a ciascun lavoratore non sia manifestamente incongrua rispetto all’opera prestata dal lavoratore. Ancorché il riscontro dovrà basarsi su elementi cartolari (ad esempio, sulla verifica della corrispondenza tra le deleghe di versamento e la documentazione fornita), lo stesso dovrà essere accompagnato da una valutazione finalizzata a verificare, tra l’altro, la coerenza tra l’ammontare delle retribuzioni e gli elementi pubblicamente disponibili (come nel caso di contratti collettivi), l’effettiva presenza dei lavoratori presso la sede del committente.
Per esigenze di semplificazione, limitatamente alla verifica sulle ritenute, la circolare chiarisce che queste ultime non si considerano manifestamente incongrue allorché siano superiori al 15 per cento della retribuzione imponibile ai fini fiscali.
Profili sanzionatori a carico del committente
Nel caso in cui il committente non adempia agli obblighi previsti a suo carico, il successivo quarto comma della nuova disposizione normativa dispone l’applicabilità di una sanzione per il committente pari a quella irrogata all’impresa appaltatrice o affidataria o subappaltatrice per la corretta determinazione ed esecuzione delle ritenute, nonché per il tempestivo versamento delle medesime. Il committente è, dunque, tenuto a versare una somma calcolata e riferita alla quota parte di ritenute fiscali – riferibili ai lavoratori direttamente impiegati nell’esecuzione dell’opera o del servizio presso il medesimo – non correttamente determinate, eseguite e versate.
Si tratta, in particolare, delle sanzioni previste dall’articolo 14 del D.Lgs. 471/97 in caso di mancata esecuzione delle ritenute (sanzione pari al 20% degli importi non trattenuti) e dall’articolo 13 del D.Lgs. 471/97 per l’omesso o ritardato versamento delle ritenute stesse (pari al 30% dei versamenti non effettuati).
In sostanza, il committente sarà soggetto a una sanzione in misura corrispondente a quella irrogata all’impresa che ha commesso la violazione. La sanzione sarà applicabile qualora il committente non abbia richiesto la prova del pagamento delle ritenute eseguite dall’impresa, non abbia sospeso il pagamento dei corrispettivi in caso di eventuali inadempimenti oppure abbia omesso di segnalarli all’Agenzia delle Entrate.
Non si tratta dunque di un regime di responsabilità solidale (come già previsto per le obbligazioni contributive dall’articolo 29 del D.Lgs. n. 276/2003); piuttosto l’intervento normativo deve essere contestualizzato nell’ambito di una serie di disposizioni finalizzate a contrastare le false compensazioni e ad attribuire in capo ai soggetti committenti un ruolo di controllo sull’esecuzione dei versamenti delle ritenute fiscali in alcuni settori particolarmente critici.
Considerata la natura sanzionatoria della disposizione in commento, la circolare 1/E/2020 ha chiarito che restano fuori dall’ambito di applicazione della stessa tutte le altre violazioni tributarie da parte dell’impresa appaltatrice o affidataria o subappaltatrice non espressamente menzionate (ad esempio, la violazione degli obblighi dichiarativi in qualità di sostituto d’imposta di cui all’articolo 2 del decreto legislativo n. 471 del 1997).
Decorrenza
Rientrano nel campo di applicazione dell’articolo 17-bis le ritenute operate sugli emolumenti di competenza gennaio 2020. I nuovi obblighi troveranno applicazioni con riferimento alle ritenute operate nel mese di gennaio 2020 e quindi relativamente ai versamenti da effettuare entro il 17 febbraio 2020 anche con riguardo a contratti di appalto, affidamento o subappalto stipulati in un momento antecedente al 1°gennaio 2020.
Considerazioni conclusive
Stante l’impianto innovativo introdotto con le norma sopra ripercorse, si suggerisce alle imprese operanti nel settore degli appalti pubblici o privati un’attenta valutazione dei propri contratti, già attualmente in essere nonché in corso di stipula o contrattazione, rendendosi opportuna, soprattutto in considerazione delle conseguenze sanzionatorie a carico delle imprese committenti, l’introduzione all’interno dei contratti di clausole specifiche o appendici aggiuntive aventi ad oggetto i nuovi obblighi a carico delle imprese appaltatrici, sub appaltatrici o affidatarie di opere o servizi, al fine di responsabilizzare queste ultime anche nell’ambito dei rapporti contrattuali tra le parti.
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